MATERNITÀ
Astensione dal lavoro vale per la carriera
I periodi di fruizione del congedo di maternità e di quello parentale vanno conteggiati dal datore di lavoro ai fini dell’avanzamento di carriera automatico, previsto dal contratto collettivo. Qualsiasi comportamento contrario è discriminatorio.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 841 del 2018, ricordando anche la sentenza n. 595 del 2014, con la quale la Corte di Giustizia Europea si è espressa in modo molto forte sul tema.
Nel caso di specie, il datore di lavoro sosteneva che l’effettivo espletamento delle mansioni fosse necessario ai fini dell’accrescimento della professionalità e funzionale alla promozione, coerentemente con quanto previsto dal Testo Unico sulla maternità e paternità (D.lgs. n. 151 del 2001). In quest’ultimo, infatti, si stabilisce che i periodi di fruizione dei congedi parentali debbano essere “considerati ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non richiedano a tale scopo particolari requisiti”. In tal caso, per l’azienda l’effettivo servizio costituiva “particolare requisito” valido per giustificare il diverso trattamento.
La Corte d’Appello, invece, ha chiarito che i “particolari requisiti” devono consistere in qualcosa di più della mera maturazione di esperienza lavorativa, a pena di contraddire il principio di non discriminazione. La Corte ha, inoltre, precisato che la natura del comportamento discriminatorio del datore fosse dimostrata dal fatto che le assenze per malattia venivano comunque conteggiate come periodi di servizio validi alla progressione di carriera.