I Consigli Nazionali di Fai, Flai e Uila hanno approvato oggi le bozze di piattaforma per il rinnovo dei Ccnl Industria e Cooperazione alimentare che passeranno ora al vaglio delle assemblee nei luoghi di lavoro per essere poi varate definitivamente a maggio e trasmesse alle controparti. Le lavoratrici e i lavoratori interessati sono oltre 450 mila, l’alimentare è il secondo comparto produttivo del paese. Ne parliamo con il segretario generale Uila Stefano Mantegazza.
Questa volta decido io da dove cominciare l’intervista. Voi chiedete in piattaforma un aumento salariale di 205 euro. Una richiesta importante. Perché?
Perché con questo rinnovo dobbiamo traghettare i lavoratori che rappresentiamo fino al 2022, un periodo lungo… quattro anni… Insieme a Fai e Flai abbiamo riflettuto molto e alla fine abbiamo deciso che la cosa più importante da fare era di porre al centro delle nostre rivendicazioni una politica salariale espansiva che, mettendo più soldi in tasca ai lavoratori, potesse contribuire alla crescita dei consumi interni. Da qui la richiesta di un aumento di 205 euro mensili a parametro 137 a cui si aggiungono circa 22 euro da destinare al sostegno e alla valorizzazione del welfare.
Ma come si giustifica questa richiesta in un contesto economico che vede il nostro paese entrato in recessione negli ultimi due trimestri?
Attenzione. Questa recessione “tecnica” arriva dopo 14 trimestri di crescita continua; 3 anni e mezzo durante i quali l’economia italiana è cresciuta. Noi pensiamo che sia un fenomeno transitorio e anche tutti gli economisti concordano nel sostenere che, già nel secondo semestre di quest’anno, l’economia tornerà a tirare e che il 2020 e gli anni successivi saranno positivi. E noi rinnoviamo i contratti per quattro anni, non per quattro mesi.
Quindi le imprese italiane sono in buona salute?
Quelle che esportano all’estero, e tra queste in prima fila quelle alimentari, sono le migliori al mondo: siamo tra i primi 5 paesi, subito dopo colossi come Stati Uniti e Cina, per saldo commerciale; siamo i primi per diversificazione dei prodotti esportati. Ma non c’è solo l’export. Nel 2017 le aziende italiane hanno depositato più brevetti di quelle tedesche e francesi. Ciò significa che hanno saputo reagire meglio alla crisi, investendo in innovazione, ricerca, nuove tecnologie e digitalizzazione; inoltre sono riuscite ad aumentare il loro patrimonio netto del 10% e ad allungare la vita media del loro debito, rendendosi meno esposte di altre al rallentamento dell’economia.
Anche quelle del settore alimentare alle quali vi rivolgete con la vostra piattaforma?
In questo contesto di buona salute generale, l’alimentare è un settore che brilla: è uscito per primo, nel 2011, dalla crisi del 2008 consolidando una ripresa produttiva e di mercato tuttora in atto; la produttività è cresciuta del 4,9%. Negli ultimi 10 anni l’export è quasi raddoppiato e il settore ha raggiunto un livello di ricavi pari a 140 miliardi di euro.
Nel periodo 2011-2017 l’indice della produzione è stato del 6% superiore alla media del manifatturiero nel suo complesso. In un solo anno, il 2017, la produzione venduta è cresciuta del 10,9%, la produzione industriale e il fatturato del 2,6%, l’export del 6,8%, raggiungendo la cifra record di 41 miliardi di euro. Non è stato un anno straordinario ma solo l’apice di una crescita che è continuata anche nel 2018.
Insomma l’Italia è tra i campioni mondiali nell’export, con il settore alimentare in testa. Ho letto che il 50% delle esportazioni italiane è opera di piccole e medie imprese, è così anche nell’alimentare?
Assolutamente si. Le piccole e medio imprese rappresentano la linfa vitale del nostro sistema industriale e la nostra richiesta salariale tiene conto anche di questa realtà: crediamo, infatti, sia giusto premiare le lavoratrici e i lavoratori di queste aziende che spesso non sono toccati dalla contrattazione di secondo livello e che vedono nel Ccnl l’unico strumento per redistribuire quella ricchezza prodotta anche grazie al loro impegno e alla loro professionalità.
Parliamo degli altri contenuti della vostra Piattaforma. Cosa proponete?
Abbiamo fatto tesoro di quanto previsto nell’Accordo Interconfederale Cgil-Cisl-Uil e Confindustria del 9 marzo 2018 in materia di formazione, welfare, sicurezza e organizzazione del lavoro. In particolare, chiediamo che venga sancito il diritto soggettivo alla formazione e 8 ore obbligatorie ad essa dedicate. In materia di welfare, chiediamo di rafforzare il sistema della bilateralità, che ha dato ottimi risultati e la partecipazione del sindacato nei processi decisionali, chiediamo anche di incrementare le tutele per la genitorialità. Sulla sicurezza abbiamo proposto iniziative e misure di rafforzamento, tra le quali una giornata interamente dedicata al tema. A fronte delle grandi trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, abbiamo chiesto di discutere del diritto alla disconnessione, per il telelavoro e lo “smart working”, e di riduzione dell’orario di lavoro, proponendo anche di adeguare il sistema classificatorio alle nuove mansioni.
E poi proponiamo di parlare dell’azienda in termini di “Comunità di sito”, nella quale siano garantite pari tutele contrattuali a tutti i lavoratori che vi lavorano. Questo vuol dire anche combattere gli appalti non genuini e favorire la re-internalizzazione delle produzioni.
Io però vorrei tornare al tema iniziale. A proposito della vostra richiesta salariale, hai parlato di “politica salariale espansiva… per contribuire alla crescita dei consumi interni”. Cosa volevi dire?
Intendevo dire che, con la nostra richiesta salariale, vogliamo accendere i riflettori su un tema che consideriamo centrale, non solo per il nostro rinnovo contrattuale ma anche per il futuro di tutto il Paese.
Quale?
Noi crediamo che in Italia esista una questione salariale che il sindacato intende porre, nel momento in cui il governo attuale, con i provvedimenti su Flat tax e reddito di cittadinanza, ha intrapreso un percorso che propone al paese soluzioni inique e contraddittorie.
Spiegati meglio…
In Italia, la dinamica dei salari dipende dai contratti di lavoro e spetta al sindacato e al sistema delle imprese determinarla. In tutti i settori, gli ultimi rinnovi dei contratti nazionali hanno svolto in maniera adeguata questo compito, difendendo il potere d’acquisto delle retribuzioni. Nel nostro comparto siamo andati oltre, riuscendo sempre a portare a casa qualcosa in più. Lo stesso abbiamo fatto, dove è stato possibile, con la contrattazione di secondo livello, aumentando i salari di produttività, i diritti e le tutele delle persone.
Ma tutto ciò non è bastato e i salari netti hanno perso parte del loro potere d’acquisto, a causa di una tassazione locale cresciuta impetuosamente e di mille altri “balzelli”. Per fare aumentare, al netto, salari e pensioni occorreva ridurre il cuneo fiscale. Lo diciamo da anni ma non siamo stati mai ascoltati. Abbiamo sperato che il governo in carica, predicando il “cambiamento”, potesse finalmente decidersi a imboccare questa strada maestra. Niente da fare… il Governo giallo-verde, al contrario, ha promosso leggi che vanno in direzione contraria.
Ti riferisci alla Flat tax?
Esatto. Anziché ridurre la tassazione sul lavoro dipendente, il Governo ha introdotto la tassa piatta che premia professionisti, commercianti e artigiani, stabilendo un’aliquota del 15% fino a 65.000 euro di ricavi e che, pertanto, a parità di reddito lordo, penalizza il lavoro dipendente che continuerà a pagare oltre il 90% dell’Irpef del paese.
Quindi è questa la soluzione iniqua di cui parlavi. E quella contradditoria allora è il reddito di cittadinanza?
Il reddito di cittadinanza ha il merito di aver reso evidente l’esistenza di un problema salariale nel nostro Paese. Questa misura, infatti, prevede un’indennità per chi è senza lavoro che, a seconda dei carichi di famiglia, oscilla tra i 780 ai 1.230 euro mensili, cifra quest’ultima che è superiore ai minimi tabellari dei livelli più bassi di molti contratti, tra cui tutti quelli del nostro comparto.
Pasquale Tridico, considerato l’architetto del reddito di cittadinanza, ha dichiarato: “il reddito minimo pone un freno a una tendenza di riduzione dello stato sociale… che ha favorito il declino della quota del salario sul Pil… Il reddito di cittadinanza può rappresentare anche la spinta iniziale di una pressione verso l’alto dei salari”. Cosa ne pensi?
Nei fatti sarà così. Prendiamo comunque atto del fatto che il Governo si è già posto il problema dell’incremento dei salari anche oltre la salvaguardia del potere d’acquisto. Ma c’è di più: ci sono in parlamento, e sono in fase avanzata di discussione, due disegni di legge (PD e 5 stelle) che mirano a definire un salario minimo legale. Entrambi fanno riferimento, seppur in termini diversi, ai minimi stabiliti dai Ccnl; entrambi individuano una soglia salariale oraria minima pari a 9 euro. Ora, visto che molti contratti hanno un valore orario inferiore a questa soglia, va da sé che, seppur in forza di una legge e non della dinamica negoziale, tali provvedimenti vanno nella direzione di spingere verso l’alto i salari.
Questo significa che Governo e Parlamento stanno già affrontando la “questione salariale” posta dal Sindacato?
Esatto. La Politica ha preso atto che la questione salariale esiste e, attraverso leggi già approvate o da approvare, intende affrontarla. È un motivo in più per sostenere una richiesta economica che non miri solo a garantire, come abbiamo sempre fatto, la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni ma vada oltre.
Siamo, infatti, convinti che il sindacato non debba più fermarsi a questo ma, riaffermando il proprio ruolo di autorità salariale anche attraverso il rinnovo dei contratti nazionali, debba ottenere anche un incremento della capacità di spesa delle lavoratrici e dei lavoratori.
Forti di questa convinzione, porteremo avanti le nostre proposte con l’equilibrio necessario ma anche con tutta la determinazione utile a raggiungere l’obiettivo.
Riuscirete a convincere la vostra controparte?
Me lo auguro. Per ora dico solo che i grandi risultati ottenuti in questi anni dalle aziende del comparto alimentare italiano non sarebbero stati conseguiti senza le buone relazioni sindacali che caratterizzano da sempre il settore e, soprattutto, senza il fondamentale contributo delle lavoratrici e dei lavoratori.