Mentre ci auguriamo il pieno successo del Presidente incaricato Mario Draghi abbiamo davanti agli occhi due scadenze sempre più vicine.
Il 31 marzo scadrà il divieto di licenziare. La crisi di Governo ha interrotto il confronto su questo tema e sulla proroga degli ammortizzatori sociali che dovremo riprendere quanto prima. La UIL ha chiaro quali le scelte da fare: il blocco dei licenziamenti deve essere prorogato a tutto il 2021; nel frattempo vogliamo definire una riforma degli ammortizzatori nell’ambito di un sistema che garantisca una copertura universale e di tipo assicurativo, più inclusivo per tutto il mondo del lavoro, meno burocratico, più veloce nel fornire le misure e, soprattutto, collegato alle politiche attive e alla formazione che dovrebbero diventare lo snodo centrale verso nuove opportunità occupazionali.
Il 30 aprile, inoltre, scadrà il termine per la presentazione del piano per ottenere i prestiti e i sussidi europei.
Rispetto al Piano Italiano di attuazione del Next Generation, predisposto dal Governo Conte, abbiamo più volte espresso un forte giudizio critico sia di forma che di sostanza. In primis è incomprensibile e inaccettabile che la stesura del piano sia avvenuta senza condividere le misure con le Parti Sociali. Tale condivisione, oltre essere dettata dal buon senso, è condizione posta dall’Europa perché rappresenta la garanzia verso l’adozione di scelte coerenti e di trasparenza nelle decisioni. Non solo questo confronto ci auguriamo possa essere recuperato con il nuovo Governo, ma deve essere premessa per definire un modello efficace di monitoraggio che coinvolga i Sindacati in ogni fase di valutazione dell’impatto, anche attraverso lo sviluppo di puntuali articolazioni territoriali.
La pandemia ha dimostrato che nessuna istituzione o individuo da solo può affrontare le sfide economiche, ambientali, sociali e tecnologiche del nostro mondo complesso e interdipendente. Pur essendo il più grande piano straordinario basato su risorse pubbliche da molti decenni, il Next generation EU non potrà neppure lontanamente cogliere gli obiettivi di contrasto della crisi e di rilancio dell’economia se non attiverà investimenti e iniziative di origine private. Questo è, a nostro avviso, il limite fondamentale del piano italiano che nella progettazione delle azioni e nel contenuto delle stesse avrà comunque bisogno di un confronto e di una attivazione delle forze sociali del paese.
Il nostro giudizio critico investe però anche il merito del piano.
Ci troviamo di fronte ad un elenco di progetti “ministeriali”, di cui alcuni già proposti, che non offrono soluzioni adeguate ai tanti problemi e alle numerose debolezze del Paese: la mancata crescita; l’occupazione; il gap occupazionale e retributivo delle donne; una prospettiva migliore alle future generazioni; la questione meridionale; un sistema fiscale più equo; un modello di sicurezza sociale più giusto.
Mancano inoltre gli schemi delle riforme richieste dalla UE come conditio sine qua non per utilizzare le risorse. Penso alla messa in sicurezza di sanità e scuola, alla riduzione dei tempi della giustizia, e alla semplificazione della burocrazia e degli appalti. C’è un fronte in particolare che, come Uila, consideriamo strategico affrontare con proposte nuove. Abbiamo senza dubbio bisogno di un piano decennale per il riassetto idrogeologico e per una riconversione ambientale. Rispetto alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica apprezziamo gli investimenti per affrontare i temi della dispersione idrica e della gestione del ciclo integrato dei rifiuti urbani, ma siamo convinti che andrebbero organizzati organicamente per ottenere risultati concreti sullo sviluppo dell’economia circolare, della chimica sostenibile, sull’energia rinnovabile, sull’idrogeno, sulla mobilità sostenibile, sull’efficienza energetica e sulla riqualificazione degli edifici. E’ a nostro parere necessario avviare una trasformazione verde orientata a stimolare l’occupazione e la sostenibilità dello sviluppo delle politiche economiche, il rispetto dei diritti umani, la volontà di favorire la resilienza delle nostre società e di tutelare la salubrità dell’ambiente che ci circonda, la necessaria riconversione dell’economia secondo i criteri della circolarità.
Cruciale sarà anche mettere in sicurezza il nostro fragile territorio, mitigando e prevenendo gli effetti degli eventi sismici, del dissesto idrogeologico e, in generale, dei disastri di tipo ambientale anche rafforzando i Consorzi di bonifica e i corpi dello Stato come Protezione civile, vigili del fuoco, forestali. In questo senso sarà imprescindibile potenziare ed adeguare completamente acquedotti, reti, impianti di depurazione fognari, così come incrementare l’utilizzo delle acque reflue depurate la raccolta delle acque e l’interconnessione degli impianti idrici e concordare la riconversione ecologica dell’industria, partire dalle aree di crisi complessa. Non possiamo farci sfuggire questa preziosa occasione per investire nella riduzione e nella gestione dei rifiuti, recuperando il profondo gap impiantistico italiano, in linea con le indicazioni dell’UE e con le misure di prevenzione: minimizzare la produzione di rifiuti favorire il riciclo e incentivare la modernizzazione in chiave green delle aree produttive attrezzate dei distretti industriali delle reti di imprese con infrastrutture verdi.
Insomma, anche dopo la rivisitazione dei contenuti voluta da Renzi, siamo di fronte a un progetto di investimenti e riforme, debole, lacunosa e senza una chiara direzione di marcia.
Dal punto di vista del diritto dell’Unione Europea il piano italiano di attuazione del Next generation EU sembra davvero poco ambizioso specialmente per quanto riguarda l’attuazione delle politiche europee (industria, trasporti, ambiente, tecnologie e crescita), i progetti e le riforme. Alcuni passi avanti rispetto alle versioni precedenti sono state fatte, ma nonostante ciò il piano nazionale di ripresa e resilienza è ancora lontano dal livello di dettagli richiesti dalla Ue. Mancano i progetti con cui le risorse verranno spese, gli strumenti, il crono-programma, i costi e gli impatti sul Pil e sull’occupazione. Manca una visione strategica di politica industriale, manca una struttura di governance del piano, determinante per attuarlo in modo efficace, nella quale ribadiamo, occorre prevedere un ruolo attivo delle parti sociali. Senza riforme – mi riferisco a pubblica amministrazione, giustizia, lavoro, pensioni, ammortizzatori sociali e fisco – e politiche ben disegnate per ridurre i divari, aumenteranno le disuguaglianze e rischi di marginalizzazione dell’Italia nel contesto competitivo internazionale. Se non si supereranno quei colli di bottiglia che da decenni impediscono al paese di fare le riforme e convergere verso i principali competitor, il punto non sarà di tornare a prima del 2019, ma scivolare ancora indietro.
Urge cambiarlo come ci chiede l’Europa, e ci auguriamo che il nuovo Governo intenda farlo con il concorso delle forze sociali, in caso contrario l’Italia non sarà in grado di spendere i fondi disponibili ad essa assegnati.
Sottolineati questi aspetti di carattere generale vogliamo però ancora fare, insieme ai nostri lettori, due conti.
Il bilancio ordinario dell’Unione Europea è di circa 150 miliardi di euro all’anno, l’1,04% del Pil. L’Italia ogni anno paga 15 miliardi e ne riceve con i fondi strutturali circa 10, ma negli ultimi 20 anni di quei 10 miliardi disponibili non siamo stati capaci di spenderne più del 50% , complessivamente non siamo stati capaci di spendere circa 100 miliardi di euro. Oggi, i fondi europei disponibili per l’Italia ammontano a circa 370 miliardi di euro: 209 del Recovery Fund, 36 del Mes sanità, 20 del Sure, 20 della Bei e 35 miliardi ancora non spesi sul bilancio ordinario 2014-2020 e 50 del nuovo bilancio 2021-2027.
E’ importante riflettere sul fatto che, se non siamo stati capaci di spendere 100 miliardi di fondi europei negli ultimi vent’anni, non saremo in grado di spenderne tre volte di più in sei anni con la bacchetta magica. A questo punto però il Governo deve individuare la strada per spenderli tutti, presto e bene.
Siamo consapevoli che non si tratta di un percorso facile e sarebbe gravissimo se fra cinque anni il nostro paese si trovasse gravato da un debito ulteriore di 100-150 miliardi senza aver risolto nessuno dei suoi problemi.