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Lavoratori italiani: i meno pagati e più tassati
L’Ocse ha fatto i conti in tasca ai lavoratori di 11 Paesi europei, parte in buona o discreta salute economica (dalla solita Germania al Lussemburgo, fino a Finlandia, Estonia e Belgio), altri in condizioni meno buone o addirittura precarie (come Francia, Italia, Irlanda, Spagna, Portogallo) fino alla malandata Grecia.
Ne viene fuori, per quanto ci riguarda, che tra il 2003 e il 2013 le retribuzioni sono mediamente aumentate in Italia da 23.113 a 29.704 euro, ben 6.590 (+28,5%).
Più in particolare, secondo l’Ocse, nel 2013 il salario lordo dei lavoratori italiani ha superato in valore assoluto solo quello dei colleghi estoni, spagnoli, portoghesi e, naturalmente, greci, piazzandosi al 7° posto di questa classifica.
Non sarebbe malissimo, visto che l’inflazione cumulata del decennio si è aggirata tra il 15-16%, per cui, sempre “in media”, il potere d’acquisto dei salari sarebbe cresciuto in dieci anni di oltre il 12%.
Tuttavia, nello stesso decennio, è cambiata anche la pressione fiscale sulle retribuzioni; da qualche parte in meno, per lo più in aumento, lungo una scala che nel 2013 andava dal 18,7% in Irlanda al 42,6% in Belgio, con l’Italia terza in graduatoria col suo 31% (+3% rispetto al 28% di dieci anni prima).
Di conseguenza, ogni lavoratore italiano ha versato al Fisco 3.869 euro dei 6.590 guadagnati in più a fine decennio, oltre 600 dei 3.219 rimasti nelle sue tasche e, nella stessa proporzione, è diminuito il suo salario reale.
È vero che le medie vanno maneggiate con cautela e prese per quel che sono: una descrizione sintetica e approssimativa della realtà; ma è anche vero che le rilevazioni dell’Ocse sono quanto di meglio circoli in proposito nel mondo.
Perciò, pur senza prenderle alla lettera, di certo confermano che i lavoratori italiani, già colpiti da precarietà e disoccupazione tra le più alte d’Europa, sono anche tra i meno pagati e tra i più tassati dell’Ue.
C’è da chiedersi quanto il governo del “jobs act” possa andarne orgoglioso.