I sudditi di Sua maestà hanno votato “Brexit”, bene o male, con la testa o con la pancia che lo abbiano fatto, ormai e per quanto si può prevedere è fatta.
Nello scafo dell’Unione si è aperta una falla, adesso bisogna evitare che altre se ne aprano e che la chiglia della malandata banca europea sia ancor più indebolita.
Innanzitutto dalle false rassicurazioni di chi, certo che “senza gli inglesi staremo tutti meglio”, li sollecita a guadagnare il prima possibile la porta.
Costui inganna se stesso e non rassicura nessuno, perché nessuno può ragionevolmente consolarsi per l’uscita dall’Unione della più importante piazza finanziaria del continente, del terzo contribuente netto al Bilancio dell’UE, del Paese europeo militarmente più credibile.
Poi dalle ripicche di quanti promettono “di farla pagare cara al Regno Unito” e dichiarano una guerra che nessuno vuole e nessuno farà, a cominciare da chi dovrebbe farla per loro conto.
Infine da coloro che ammiccano compiacenti ai due o tre milioni di inglesi che vorrebbero “rifare il referendum” ed agli scozzesi che, per restare nell’UE, dicono di essere pronti a lasciare il Regno Unito.
Queste strizzate d’occhio rischiano di essere prese sul serio, di riversare sulla già tanto debilitata democrazia europea le tossine che consentirebbero a chiunque di disconoscere il qualsiasi esito elettorale insoddisfacente, in nome della infinita ripetizione di ogni voto.
Né si può escludere che quelle stesse strizzate d’occhio possano indurre qualcuno – come non pensare ai baschi, ai fiamminghi e chissà chi altro – a cogliere al volo l’occasione di separarsi dallo Stato di appartenenza, magari per seguire gli inglesi fuori dall’UE.
Meglio tacere per scaramanzia di quel che gli ammiccamenti ai cattolici dell’Ulster, decisi a riunirsi all’Eire ed all’UE, potrebbero scatenare con gli “unionisti” altrettanto decisi a restare nel Regno Unito, anche se “fuori dall’Unione”.
Nei momenti difficili, insegna l’esperienza, bisogna dire e dirsi la verità.
E dicono il vero coloro che degli attuali e futuri guai dell’Europa ritengono responsabili le politiche “dell’austerità e del rigore”, le frontiere sbarrate a difesa degli egoismi nazionali, la solidarietà declamata nei discorsi e rinnegata nei fatti.
Dicono di nuovo il vero quando chiedono all’Europa di parlare al mondo con una sola voce, di ricollocare sull’intero suo territorio i profughi e di investire nei loro Paesi di origine quanto necessario a non costringerli ad emigrare, di emettere “eurobond” a comune garanzia del debito degli Stati Membri e delle esposizioni delle loro banche, di non guardare troppo per il sottile gli investimenti per la crescita finanziati in deficit.
Ma non dicono tutto il vero, perché tanto indugiano sui dettagli di quel che si deve fare, quanto si ritraggono dal chiarire come farlo.
Nulla dicono dei “poteri in più” da attribuire all’Unione alla quale si chiede di fare più di quanto abbia finora fatto e di fare meglio quel che ha finora fatto male.
Non dicono chi dovrà “tirar fuori i soldi” indispensabili ad investire nei Paesi da cui partono i “migranti”, a sottoscrivere gli “eurobond”, a garantire sofferenze bancarie spesso multiple del pur imponente “surplus” tedesco.
Dobbiamo dire e dirci tutta la verità, anche sugli errori commessi e su come correggerli. Dobbiamo chiederci se, di allargamento in allargamento, non abbiamo accumulato nella medesima Unione troppe diversità, se le flessibilità di bilancio davvero servano a rimettere in sesto i conti pubblici, se i valori dell’accoglienza non siano ormai pericolosamente in prossimità dei limiti oltre i quali “nessuno può essere obbligato a fare l’impossibile”. Domande difficili, che nessuno vorrebbe porsi, che troppi non si pongono, alle quali sempre più europei pretendono si risponda.
La fiducia nell’Europa passa per queste risposte, difficili, sgradevoli, ma impossibili da nascondere ancora a lungo sotto il tappeto dei luoghi comuni e delle frasi fatte della ormai logora retorica europeista.
Non è retorico dire che “ci vuole più Europa”, ma sarebbe ipocrita non aggiungere che di questi tempi non sembrano all’ordine del giorno le ulteriori “cessioni di sovranità” sufficienti a trasferire all’Unione i mezzi necessari a darsi politiche veramente comuni dello Sviluppo, degli Esteri, della Difesa, dell’Immigrazione.
Se tutti o quasi gli Stati Membri e parte crescente dei loro elettori non sono disposti a fornire a Bruxelles i poteri e le risorse all’altezza delle complessità dei problemi da risolvere, non si può che prenderne per il momento atto, lavorare per un’Unione meno asfittica e restituire nel frattempo quei problemi alla sovranità ed alle responsabilità di ogni Stato.
E’ triste ammettere che al momento non possiamo avere “più Europa”, ma è meglio contentarsi di averne per ora “un po’ meno” e qualcosa in più di qui in avanti, piuttosto che rischiare di averne “sempre meno, fino a niente del tutto”.
Ciò nonostante c’è anche un’altra soluzione a quella che potrebbe essere una “nuova Europa”. Un grande progetto che spinga i leader politici verso gli Stati Uniti d’Europa dove attuare maggiore giustizia sociale, più equità, più opportunità, più diritti. Stati Uniti dove completare l’Unione bancaria con la garanzia unica dei depositi, dove mettere in comune i debiti pubblici nazionali e che con un’unica voce indichi le soluzioni utili per la sicurezza e l’immigrazione. Da implementare e da attuare in fretta. Chi continua a pensare che prosperità, pace e cultura possano svilupparsi solo attraverso soluzioni condivise deve dimostrare che queste non sono solo belle parole. Chi è convinto che l’Europa sia una ricchezza deve correre a realizzare quegli obiettivi che fino a oggi, per interessi nazionali ed egoismi anche individuali di molti leader, sono rimasti tra le buone intenzioni. Noi della Uila siamo tra questi.