Entro la fine del mese di luglio, sarà necessario che il Consiglio Europeo avalli definitivamente i Piani di Ripresa e Resilienza già approvati dalla Commissione Europea, e inizi a distribuire ai Paesi Membri i 750 miliardi del Next Generation EU, per stimolare la ripartenza post pandemia.
Due terzi di queste risorse, ovvero 191,5 miliardi di Euro, saranno destinati all’Italia per attuare le misure e le riforme proposte con il PNRR e il primo assegno sarà costituito da una somma di 24,9 miliardi, pari al 13%.
Se volessimo aggiornare un vecchio adagio potremmo dire che: “i soldi non fanno la felicità – se non si fanno anche le riforme”. Al pacchetto di investimenti, infatti, devono essere legate delle modifiche strutturali che il nostro paese si è impegnato ad adottare con un cronoprogramma molto preciso e dettagliato. Il Piano, infatti, è composto da 190 misure, di cui 132 sono investimenti e 58 riforme, che hanno l’obiettivo di risolvere le disuguaglianze di genere, i gap generazionali, i divari territoriali e di competenze che ancora dividono il nostro paese.
Una delle riforme che l’Europa ci chiede da subito riguarda il Mercato del Lavoro. Il plafond è ingente: quasi 4 miliardi e mezzo per rilanciare le politiche attive del lavoro e della formazione, creando un programma nazionale per la Garanzia dell’Occupabilità dei Lavoratori – Gol – con un sistema di presa in carico unico dei disoccupati e delle persone in transizione occupazionale (percettori del reddito di cittadinanza, Naspi, Cassa integrazione guadagni..).
Il Piano dovrà fornire strumenti per accompagnare le persone disoccupate, inoccupate o in cerca di nuova occupazione ad una nuova vita lavorativa, profilando la costruzione di percorsi personalizzati che riqualifichino le professionalità. Contestualmente, dovrà essere adottato il Piano Nazionale Nuove Competenze, che determinerà gli standard per la formazione professionale, istituendo una rete territoriale di servizi di istruzione, formazione e lavoro. L’auspicabile premessa alla realizzazione del piano è che Istruzione e Lavoro collaborino insieme nella definizione di politiche integrate sia in termini di programmazione dell’offerta formativa coerente con le esigenze dei contesti produttivi sia del suo utilizzo nell’importante fase dell’orientamento delle scelte dei giovani e delle loro famiglie, nonché per le transizioni dal sistema d’istruzione e formazione al mercato del lavoro.
Un aspetto importante che ci preme evidenziare inoltre è lo stanziamento di un ulteriore miliardo per finanziare il Fondo Nuove Competenze, attraverso cui le aziende potranno rimodulare l’orario di lavoro favorendo l’attività di formazione sulla base di specifici accordi collettivi, stipulati con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Uno strumento grazie al quale sarà finalmente possibile assicurare l’aggiornamento professionale necessario ai lavoratori, lasciando che il Fondo copra il costo delle ore aziendali dedicate alla formazione. Il connubio potrebbe diventare molto efficace affidando i restanti altri oneri – docenti, aule, materiali – ai fondi interprofessionali e permettendo così che tutta la formazione diventi a costo zero. Anche nel caso di aziende che abbiano attivato la cassa integrazione guadagni, la formazione potrà essere demandata al Fondo Nuove Competenze per attivare processi di ricollocazione della forza lavoro o la transizione verso nuova occupazione.
Riteniamo che andrebbe ulteriormente incentivata anche l’organizzazione dei Centri per l’Impiego e le agenzie per il lavoro, attraverso una nuova e innovativa relazione di partenariato tra pubblico e privato. Vero è che il piano complessivo del governo destina 600 milioni al rafforzamento dei Centri per l’Impiego, mirando a rinnovare la rete dei servizi per il lavoro, aumentare la prossimità di questi ai cittadini, favorire l’integrazione con il sistema di istruzione e formazione anche attraverso la rete degli operatori privati. Tuttavia, la disponibilità di risorse non è di per sé garanzia di miglioramento dei servizi. Come è noto, infatti, l’attuale sistema delle politiche attive è poco efficiente e pompare denaro in una macchina non produttiva potrebbe addirittura aumentarne il tasso di inefficienza.
La prima cartina di tornasole del malfunzionamento della macchina delle politiche attive italiane sono proprio i Cpi, così scarsamente utilizzati dai disoccupati italiani: secondo i dati Istat solo un italiano su quattro vi si è rivolto con cadenza mensile, contro una media UE almeno doppia. Lo studio evidenzia come i cittadini italiani in cerca di occupazione preferiscano affidarsi a canali informali, anziché istituzionali: l’87,3% si rivolge principalmente a parenti, amici e conoscenti. Al contrario, i nuovi occupati che hanno trovato lavoro attraverso i Cpi sono stati solo il 3,4% nel 2019, mentre le Agenzie per il Lavoro, ovvero centri privati, hanno offerto nuova occupazione al 5,6% degli utenti che vi si sono rivolti.
A nostro parere non è certo raddoppiando le risorse che si può superare questo divario strutturale, né credendo che attraverso le assunzioni di nuovo personale si riesca a superare il problema. In Italia, attualmente, in forza sono presenti 8.500 addetti nei centri per l’impiego che, a seguito della annunciata riforma, dovrebbero arrivare ad essere circa 20.000. In Germania, gli addetti sono oltre 100.000. Il differenziale, però, non è tanto nei numeri, ma nell’idea stessa del Mercato del Lavoro e delle Politiche Attive.
Come UILA continuiamo a pensare che investire nel sistema pubblico delle politiche attive del lavoro equivalga a buttare acqua in un pozzo senza fondo. Dalla fine del fascismo il sistema dell’incontro da domanda e offerta di lavoro corre attraverso altre strade. Un tempo troppo lungo per pensare che la gestione pubblica, con tutte le sue inefficienze, possa diventare una opportunità.
La nostra proposta è semplice e si muove su un doppio binario.
Il primo è quello della formazione, con il potenziamento degli ITS e, soprattutto, con il loro coinvolgimento attraverso la contrattazione e la bilateralità, in un rapporto sempre più stretto con le aziende e gli studenti lavoratori. Questa dovrebbe essere una delle nuove frontiere della bilateralità: le parti sociali convengono sugli obiettivi occupazionali e sulla loro qualità e attraverso il confronto costante all’interno degli enti bilaterali contribuiscono a finanziare la formazione necessaria.
L’altro passo è conseguente: l’incontro tra domanda e offerta di lavoro deve essere affidato alle parti sociali. Facciamo un esempio concreto. Risultano ad oggi mancare all’industria alimentare oltre 26.000 addetti per macchine confezionatrici di prodotti. Affidiamo alle parti sociali la ripartizione, per territorio e aziende, la definizione dei percorsi formativi necessari, il loro costo e le modalità di finanziamento – in parte anche attraverso le risorse della bilateralità – e facciamo incontrare la domanda e l’offerta di lavoro.
È una sfida difficile ma non impossibile, mentre lo stesso percorso affidato alla struttura pubblica è destinato alla sconfitta certa.
Il piano deve essere, quindi, a nostro avviso, rivisitato ed integrato con politiche attive affiancate a politiche industriali strutturali, che concretizzino una differente concezione della qualità del lavoro. Più in generale, occorrerebbero anche politiche fiscali che favoriscano lavoro ed investimenti, tornando a fare redistribuzione dell’economia reale. Mentre ancora si combatte lo sfruttamento lavorativo, è giunto il tempo che il lavoro sia strumento per l’emancipazione.
Il contributo delle parti sociali e la buona contrattazione collettiva, quella dei sindacati maggiormente rappresentativi, vanno dunque rafforzate con l’obiettivo da un lato di combattere il dumping salariale e permettere la garanzia di una retribuzione giusta, facendo ripartire i consumi, e dall’altro di imporre il rispetto della condizionalità sociale.