L’EDITORIALE
Nuovo modello contrattuale, riflessioni sulle proposte Cisl
di Stefano Mantegazza
Le proposte della Cisl “per un nuovo modello della contrattazione” hanno certamente dei meriti.
In primo luogo quello di non opporre un cieco rifiuto di retroguardia alla necessità, addirittura all’urgenza, di adeguare il sistema della contrattazione collettiva a quanto è cambiato, sta cambiando ed ancora cambierà nel mondo del lavoro e della produzione, in Italia e praticamente dappertutto.
Poi quello, non da meno, di affrontare l’intero orizzonte della regolazione contrattuale del rapporto e della prestazione di lavoro, dalla vera e propria struttura della contrattazione collettiva alla funzione propulsiva della formazione professionale, dalle tutele sociali dei lavoratori al welfare convenuto tra le parti ed affidato alla bilateralità, fino alla partecipazione dei lavoratori alla gestione ed all’organizzazione delle imprese ed a molto altro di non minore importanza.
Soprattutto, la proposta della CISL ha il decisivo merito di spostare in via strutturale e permanente il baricentro del sistema contrattuale dal CCNL alla contrattazione di secondo livello, superando il controverso e scarsamente efficace meccanismo delle più o meno occasionali deroghe.
Anche la UIL è convinta che il sindacato debba negoziare meno nei lontani, frammentati e sempre più incerti confini della contrattazione nazionale e di più, molto di più, in azienda e sul territorio, nei luoghi più vicini alle fondamentali ragioni, ai comuni interessi, alla condizione sociale del lavoro.
Ciò fermo restando, non tutto delle proposte della CISL a me sembra egualmente convincente.
Perché, se è indubbiamente ragionevole affidare al CCNL la responsabilità di garantire il valore reale delle retribuzioni di categoria, non è facile capire perché mai l’aumento dei minimi tabellari nazionali debba essere commisurato all’inflazione media dell’eurozona, non è chiaro se dei soli 19 Paesi dell’euro in senso stretto, ovvero dell’intera Unione a 28.
E’, viceversa, chiaro al comune buon senso che l’andamento dei prezzi in Polonia, a Cipro, in Germania e negli altri Stati Membri non ha molto a che vedere col potere d’acquisto dei lavoratori italiani, che di sicuro non vanno a fare la spesa in giro per l’Europa.
Tanto da far pensare che il riferimento all’inflazione media europea sia un escamotage per sfuggire alla trappola dell’IPCA e misurare gli aumenti contrattuali su qualcosa di meno asfittico della dinamica praticamente piatta dei prezzi interni.
Gli escamotage difficilmente funzionano, meno che mai quando sembrano e sono piuttosto trasparenti.
Meglio ragionare in altro modo, muovendo dalla obiettiva constatazione per cui la retribuzione del lavoro è non solo fonte fin troppo rilevante delle entrate fiscali dello Stato e componente di prima grandezza del reddito nazionale, ma anche e soprattutto una “leva strategica” di ogni politica della domanda e dei consumi, di qualsiasi stimolo alla produttività e competitività delle imprese.
In poche parole, è evidente che la dinamica delle retribuzioni è strettamente e sotto molti riguardi connessa alla struttura ed all’andamento del PIL, perciò è egualmente evidente che, in tempi normali, le retribuzioni debbano crescere almeno di pari passo al PIL, sia per ovvie ragioni di equità, sia perché, altrimenti, la relativamente minor crescita dei salari deprimerebbe quella della domanda, dei consumi e, alla fine, dello stesso PIL.
In tempi di crisi e di recessione, quando la crescita langue a livelli insufficienti a creare lavoro e ricchezza, il salario deve “anticipare” il PIL, per sostenere la domanda, i consumi, la produzione e spingere così lo stesso PIL oltre i troppo modesti tassi di crescita ai quali, altrimenti, si attesterebbe.
Per questo i contratti scaduti ed in scadenza devono essere subito rinnovati, aumentando le retribuzioni non solo di quanto si prevede possa crescere il PIL, ma di quanto si vuole che cresca, imprimendo al sistema della produzione e del consumo la spinta necessaria e sufficiente ad accelerarne la crescita.
Nessuno pretende di avere la verità in tasca, ma penso che il sindacato possa e debba discutere unitariamente delle verità di ognuno, delle affinità e differenze tra le diverse proposte sindacali sul nuovo sistema della contrattazione, di come mettere a fattor comune le une e le altre.
Dal “contratto a geometria variabile” che consentirebbe alle aziende che non hanno mai contrattato al loro proprio livello un accostamento “soft” alla contrattazione integrativa ai modi in cui assicurare a tutti i lavoratori l’accesso alla previdenza ed all’assistenza sanitaria integrative, dalle nuove tutele per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro fino alla partecipazione dei lavoratori alla gestione e, al caso, al capitale delle imprese ed al molto altro di cui ogni Confederazione ha finora ragionato per suo conto e di cui è tempo si ragioni tutti assieme.
Infatti, le proposte della UIL, della CISL o della CGIL, tutte egualmente legittime e rispettabili, sono utili se consentono di aprire un confronto leale e costruttivo innanzitutto nel sindacato, senza veti e senza bandierine d’organizzazione, e poi con le controparti, perché, alla fin dei conti, come non rinnoviamo i contratti da soli, così il sindacato non può riformare da solo il sistema della contrattazione.
Tanto meno possiamo permettere che lo riformino per legge, per vie ed alleanze traverse i partiti che, per debolezza politica e per carenza di consenso, considerano l’autonomia delle parti sociali una complicazione e non una risorsa della democrazia.
Non possiamo ignorare, meno che mai sottovalutare la ” spada di Damocle” sospesa sul sindacato dal Governo che, per “difenderci da noi stessi”, minaccia di legiferare sull’organizzazione, sull’attività e sulle stesse libertà sindacali, di sovrapporre alla libera contrattazione collettiva il salario stabilito per legge, di pasticciare con la regolazione costituzionale del diritto di sciopero e delle modalità del suo esercizio.
Renzi può star sereno, sappiamo difenderci benissimo da soli, altri hanno provato a sottometterci per legge, non ha mai funzionato, né ci ha mai impedito di armonizzare nei nostri accordi e col consenso dei lavoratori i particolari interessi del lavoro a quelli più generali del Paese.
Non sarà un tweet minaccioso ad impedirci di farlo ancora.
Anche Confindustria deve star serena, non pretendiamo che accetti a scatola chiusa le nostre proposte, ma nemmeno si illuda che ci rassegneremo supinamente alle sue.
Sappiamo come restituire al mittente la minaccia di bloccare ogni rinnovo contrattuale, non ci adatteremo mai ad un’idea di contrattazione “à la carte”, che alle imprese conceda licenza di contrattare solo ove ne abbiano voglia e se non hanno di meglio da fare, che consegni loro la facoltà di scegliere dai contratti sottoscritti cosa prendere, cosa lasciare, in ogni caso libere di non prendere assolutamente nulla.
Ciò detto, ci rendiamo conto delle difficili condizioni del Paese e delle difficoltà delle imprese, siamo perciò convinti che non siano questi tempi per prove di forza che, comunque vadano, sarebbero una sconfitta per tutti.
Questo è il tempo di rinfoderare le minacce “da ogni parte provengano”, di permettere alle parti di riflettere senza indebite pressioni su quel che la contrattazione collettiva è stata e non può continuare ad essere, di decidere senza interferenze improprie quel che il sistema contrattuale e quel che gli ruota attorno possono e devono diventare.
Certo, le posizioni di partenza della Confindustria e del sindacato – e, nel sindacato, di ciascuna Confederazione – sono più e meno diverse tra loro, come sempre avviene in qualsiasi trattativa.
Possiamo, dobbiamo superarle, sapendo che, alla fine, ognuno avrà buoni motivi per non fare l’accordo, ma tutti ne avremo di più e di migliori per farlo.