Aumentano sempre di più gli italiani che lasciano il nostro Paese. Al 1 gennaio 2017, gli italiani residenti all’estero sono 5 milioni (erano 3 milioni nel 2006). È quanto emerge dalla XII edizione del “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes.
Nel 2016, hanno lasciato il paese quasi 125.000 persone (+15% rispetto l’anno precedente), per il 55% uomini e per il 62% celibi o nubili. Un dato allarmante riguarda l’età degli emigranti del 2016: il 64% ha meno di 50 anni, il 39% ha tra i 18 e i 34 anni. In molti casi le partenze non sono individuali ma di “famiglia”, coinvolgendo anche i minori (oltre il 20%, di cui il 12,9% ha meno di 10 anni). A questi si aggiunga il 9,7% di chi ha tra i 50 e i 64 anni, i tanti “disoccupati senza speranza” tristemente noti alle cronache del nostro Paese poiché rimasti senza lavoro in Italia e con enormi difficoltà di riuscire a trovare alternative occupazionali concrete per continuare a mantenere la propria famiglia e il proprio regime di vita.
La maggior parte è andata in altre nazioni europee – in particolare Regno Unito (24.800), Germania (19.200), Svizzera (11.800), Francia (11.100) – e poi nelle Americhe, Brasile (6.900) e Usa (5.900). La Lombardia, con quasi 23 mila partenze, si conferma la prima regione d’espatrio, seguita da Veneto (11.600), Sicilia (11.500), Lazio (11.100) e Piemonte (9.000).
Fin qui le cifre, in particolare quelle riferite al 2016. Ora qualche considerazione. La mobilità, sostiene il Rapporto, è una risorsa perché permette il confronto con realtà diverse e può essere una opportunità di crescita e arricchimento. Oggi, però, in uno stato generale di recessione economica e culturale, la migrazione degli italiani è tornata ad essere, come in un lontano passato, una valvola di sfogo alla ricerca di una sorte migliore. Una mobilità unidirezionale, con partenze sempre più numerose e ritorni sempre più improbabili. La questione non è tanto quella di agire sul numero delle partenze ma piuttosto riuscire a trasformare l’unidirezionalità in circolarità in modo tale da non interrompere un percorso di apprendimento e formazione continuo e crescente.
“Chi parte” si legge ancora nel rapporto “è il miglior ambasciatore del territorio da cui è partito. La presenza italiana è presenza regionale e la regionalizzazione, se dovutamente considerata, diventa incentivo non solo di conoscenza e valorizzazione dell’Italia, ma anche motore di sviluppo e di crescita economica e culturale”.