L’EDITORIALE
G-20 e l’allarme deflazione
La ricetta per tornare a consumare e a produrre
di Stefano Mantegazza
Il recente G-20 di Lima ha lanciato “l’allarme deflazione”, sull’onda dei venti di recessione che dalla Cina e dai Paesi Emergenti soffiano sull’economia mondiale e del venir meno, probabilmente entro l’anno, delle politiche espansive della FED e, nel prossimo autunno, del “Quantitative Easing” della BCE.
Un allarme assai inquietante per l’Italia, precariamente avviata su un sentiero di crescita incerto e stentato, appesantita da un debito pubblico imponente, con molti più disoccupati di quanti la coesione sociale possa sopportarne.
Il pericolo è serio ed ancor più serio è il rischio di scambiare i sintomi della malattia per la sua cura.
Come sembra fare il Centro Studi di Confindustria che, in estrema sintesi, così ragiona: negli ultimi tre anni le retribuzioni sono cresciute del 4,6% più dell’inflazione, la loro crescita reale ha sottratto ai margini d’impresa il 74,3% del valore aggiunto ed altrettanta capacità di investire, tirandosi dietro al ribasso la produzione e l’occupazione.
Il ragionamento non convince.
Innanzitutto perché, dato e non concesso che le retribuzioni siano veramente cresciute nel triennio scorso del 4,6%, nello stesso frattempo la pressione fiscale “formale” è salita dal 41,6 al 44% e quella reale anche di più, sequestrando praticamente l’intero aumento nominale dei salari e di qualcosa riducendo il loro potere d’acquisto.
Poi, e di conseguenza, perché, seppure l’ottimismo della volontà spinge di qualcosa al rialzo il “clima di fiducia” dei consumatori, i consumi veri ristagnano, assieme al livello generale dei prezzi, fornendo alla deflazione un potentissimo lubrificante.
Infine perché, dopo anni di “blocco” della contrattazione nel Pubblico Impiego, è difficile credere che la peraltro modestissima dinamica nominale dei salari nel settore privato abbia veramente sottratto ai margini d’impresa addirittura i 3/4 del valore aggiunto prodotto.
Più semplice e ragionevole pensare che, se otto e passa anni di crisi hanno amputato del 30% la produzione manifatturiera nazionale, in quegli stessi anni sia diminuito in pari proporzione il valore aggiunto destinato ai margini d’impresa.
L’amputazione della produzione industriale, peraltro, spiega assai meglio del presunto e sostanzialmente virtuale aumento delle retribuzioni perché, dal 2000 al 2014, la produttività sia cresciuta del 10,3% in Italia, del 31,5 in Germania, del 40 in Spagna e del 41,3 in Francia.
E’ ovvio, infatti, che, se gli impianti girano a rilento, la loro produttività diminuisce ed aumenta l’incidenza dei costi fissi, di cui quello del lavoro è in molti settori della manifattura la minore e talora minima parte.
Quindi e per riassumere, non è vero che le retribuzioni reali siano cresciute in Italia così vistosamente da erodere i margini operativi delle aziende, da abbatterne la produttività e da compromettere la loro capacità di investire.
E’ vero, al contrario, che la scarsità degli investimenti in ricerca ed innovazione ha depresso l’efficienza delle imprese e diluito la competitività delle loro produzioni.
E’ vero che il declino del potere d’acquisto dei lavoratori, compresso dal blocco dei contratti pubblici e dalla disoccupazione più alta di sempre, tiene al palo i consumi e, quando i consumatori lesinano sugli acquisti, non si produce e l’inflazione non può che viaggiare attorno all’1%, la metà di quanto Draghi ritiene indispensabile a riavviare la crescita.
E’ soprattutto vero che la deflazione prossima ventura è annunciata dalla disoccupazione che diminuisce al ritmo dei decimali di punto, dai sempre più giovani che cercano inutilmente il loro primo lavoro, dal sistema industriale il cui perimetro, al netto dei recenti risultati del settore automobilistico, continua a restringersi.
Chi pensa di combattere tutto questo semplicemente con l’ulteriore riduzione dei salari, pretende di alleviare l’inedia col digiuno.
Bisogna fare esattamente l’opposto, spezzare prima che sia troppo tardi e nel punto dal quale prende l’abbrivio, la spirale “meno salari – meno consumi – meno produzione – meno occupazione – di nuovo meno salari” e così via verso la deflazione.
In primo luogo restituendo alle retribuzioni il potere d’acquisto sottratto dal Fisco, perché possano sostenere i consumi e compensare le pressioni deflattive sui prezzi.
Poi rinnovando i contratti collettivi, per consolidare il valore reale del salario ed assicurare alla produzione il vero, insostituibile valore aggiunto della flessibilità del lavoro e della professionalità dei lavoratori.
Infine abbassando subito e di quanto necessario il carico fiscale sui margini d’impresa ed eliminando una volta per tutte gli impacci burocratici che paralizzano gli investimenti innovativi, il vero motore della produttività.
La deflazione non si sconfigge con gli annunci, non basta lanciare l’allarme, bisogna tornare a consumare ed a produrre.
Possiamo e dobbiamo farcela, i consumatori hanno ancora fiducia nel Paese, il sistema della produzione sarà pur diventato di un terzo più piccolo, ma, al netto di sempre meno frequenti e convenienti delocalizzazioni, le fabbriche sono ancora qui.
Il sindacato ed i lavoratori sono pronti a fare la loro parte perché gli impianti riprendano a girare, a produrre ricchezza, a creare posti di lavoro.