Un quarto di secolo fa, caduto il Muro di Berlino e, con lui, la divisione del mondo tra i contrapposti “blocchi” del libero mercato e del socialismo realizzato, la Cina è entrata a suo modo nell’economia capitalista, ha inondato gli scambi internazionali con immense quantità di prodotti resi estremamente competitivi dai bassi salari, dall’indifferenza ai costi ambientali e da buone dosi di “dumping”, fino ad accumulare stratosferici “surplus” commerciali e diventare la seconda economia del pianeta, con tutte le intenzioni di diventarne la prima.
Da più di vent’anni, perciò, la Cina cresce a due cifre ed ancor di più sono cresciute le Borse di Hong Kong, abbondantemente aperta agli operatori internazionali, di Shenzhen, soprattutto dedicata ai titoli tecnologici, e più delle altre di Shanghai, il cui andamento influenza ormai quello di tutte le borse mondiali. Tanto che la “crisi globale”, aperta dal fallimento di Lheman Brothers ha sconvolto l’Europa e l’America, ma non ha impedito alla Cina di continuare a crescere trainata dalle esportazioni e di trainare, a sua volta, la crescita dei BRICS e più in generale dei Paesi Emergenti dell’Asia e di praticamente ogni dove.
Poi è arrivata l’estate del 2015 e tutto è cambiato.
Non è semplice capire cosa sia successo e stia succedendo in Cina e dalla Cina si stia spargendo praticamente ovunque, ma è certo che quel che sta accadendo viene, come si suol dire, “da lontano”.
Innanzitutto da un paio di decenni circa di crescita a due cifre, accompagnata ed in ampia misura sostenuta dal dinamismo dei corsi azionari, nei quali oltre 90 milioni di cinesi hanno riversato i loro risparmi e, non di rado, denaro preso a prestito da banche che, sull’onda dell’impetuoso sviluppo dell’economia, sono state assai generose e non troppo selettive nell’accordare mutui a buon mercato a praticamente a chiunque li chiedesse. Poi, dalla non sempre scorrevole coesistenza nell’ex Celeste Impero di un mercato relativamente libero, per quanto largamente imperfetto ed intrinsecamente volatile, e di un’economia solo asimmetricamente “globalizzata” – è assai più agevole importare dalla Cina, che non esportare qualcosa in Cina – con un sistema politico sostanzialmente “di comando”, fitto di Aziende di Stato, in determinante misura governato dalle scelte, dalle convenienze, persino dalle vicissitudini politiche del Partito “unico” del Popolo.
Infine, dall’accumulo di sempre più imponenti attivi finanziari, per la loro stessa abbondanza non integralmente trasferibili all’economia reale e, perciò stesso, investiti in altra finanza – più in patria, che non all’estero – con l’effetto di sovralimentare ed accelerare una spirale largamente fine a sé stessa. Per di più, quell’imponente attivo finanziario cinese è quasi tutto denominato in dollari, il che lo espone alle alterne vicende della parità internazionale della valuta statunitense, il cui valore esterno varia al variare, più che dei fondamentali reali dell’economia americana e mondiale, delle decisioni politiche dell’Amministrazione USA e delle manovre monetarie della FED, così aggiungendo altra instabilità ai già non saldissimi equilibri finanziari cinesi.
Questo concorrere di circostanze e di contraddizioni, ingarbugliato dal formarsi di un mercato “quasi libero” e drogato dall’affluire di valanghe di dollari, ha creato una gigantesca “bolla finanziaria” che ha gonfiato a dismisura una quasi equivalente “bolla immobiliare”. Gli anni della crescita impetuosa e dall’apparenza inarrestabile, infatti, hanno promosso un processo di urbanizzazione che, in relativamente poco tempo, ha spostato dalle campagne alle città la maggior parte dei 1.400 milioni di cinesi ed ha spinto alle stelle la domanda di abitazioni, l’attività edilizia, la concessione di mutui ai nuovi abitanti dei centri urbani.
A questo punto è arrivata la crisi delle Borse.
Il ritmo dello sviluppo, ufficialmente dimezzato, ha perso e sta perdendo ben più colpi di quanti le statistiche ufficiali ammettano, il credito bancario è diventato più scarso e più caro, il reddito disponibile è diminuito, rimborsare i debiti è diventato più difficile e sempre più spesso impossibile, hanno cominciato ad andare in sofferenza i crediti “sottostanti” ai titoli collaterali venduti a sovente inesperti ed improvvisati investitori, ovvero messi a riserva nei bilanci delle banche.
E la “bolla finanziaria” ha preso forma ed acquistato volume, ha accelerato la fuga dei risparmiatori dalla Borsa ed ha ancor più ridotto le fonti di finanziamento delle imprese, già in affanno sul fronte del credito bancario ed ormai con sempre più ridotti canali di accesso al capitale di rischio, mentre varie decine di milioni di piccoli e medi investitori in azioni hanno perso buona parte del denaro che avevano scommesso sulla finora formidabile crescita industriale del Paese.
Meno investimenti delle imprese e meno reddito disponibile delle famiglie hanno ulteriormente depresso la produzione e scoraggiato i consumi, così ancor più peggiorando, a tutto vantaggio della “bolla finanziaria”, il rapporto tra economia virtuale ed economia reale. Vari decenni or sono, in tempi di Rivoluzione Culturale e di Contestazione Permanente, cortei e manifestazioni annunciavano un po’ dappertutto la fine del capitalismo al grido di “la Cina è vicina”.
Per buona sorte di tutti, visto come è andata a finire, era soltanto uno slogan di immeritato successo.
Oggi, però, la Cina “a modo suo capitalista” minaccia la stabilità del libero mercato ben più di quanto la abbiano mai messa a rischio in passato le Guardie Rosse ed il Libretto di eguale colore a suo tempo agitato in giro per il mondo. E per questo quel che accade ed accadrà in Cina, e dalla Cina altrove, merita, per ovvie ragioni, di essere seguito con ogni attenzione, cosa che ci ripromettiamo di fare come meglio possibile nei prossimi numeri.