La Borsa di Shanghai, dopo esser cresciuta in un anno del 150%, in meno di due mesi ha perso oltre un terzo della sua capitalizzazione e ieri, 24 agosto, ha perso un altro 8,5%, da aggiungere all’11% ceduto la settimana precedente, trascinando con sé Hong Kong, Shenzhen, le Borse europee, quelle emergenti e persino Wall Street.
E tutto lascia ritenere che non sia finita, anzi, c’è il serio rischio che ancor di peggio possa accadere.
Perché le successive e non del tutto inattese svalutazioni della moneta cinese non hanno abbassato la febbre delle Borse, così come si sono rivelate sostanzialmente inefficaci le pur eccezionali misure fin qui adottate dal Governo cinese e dalla Bank of China, quali il blocco di tutti i prestiti garantiti da azioni, l’ordine “perentorio” impartito alle molte aziende statali di acquistare titoli azionari, il “divieto a vendere” imposto a chiunque possieda almeno il 5% delle azioni di grandi imprese e ben due massicce iniezioni di liquidità nel sistema bancario e finanziario del Paese. A quanto si dice nei corridoi della finanza internazionale, infatti, pare che Governo e Banca del Popolo si preparerebbero a misure ancor più straordinarie e rischiose, dal dirottamento sulla Borsa del 30% degli accantonamenti dei Fondi Pensione statali ai circa 100 miliardi di dollari da riversare sull’economia con la riduzione di mezzo punto delle riserve bancarie obbligatorie.
Ciò malgrado, mercati ed operatori finanziari si fidano sempre meno del Governo cinese, che ancora annuncia per quest’anno una crescita del 7% o poco meno, sempre più convinti che la Cina, nel 2015 e nel prevedibile avvenire, potrebbe crescere poco sopra, forse addirittura sotto lo zero. E, a giudicare da quel che sta accadendo, probabilmente non hanno torto, visto che le Borse continuano a scendere in Cina e nel resto del mondo e che la liquidità riversata a piene mani dalle autorità cinesi nel sistema finanziario del Paese sembra non riuscire ad evitare alla Cina ed all’economia mondiale una nuova crisi, ancor più preoccupante di quella non ancora del tutto finita.
Una crisi che ricorda quella del 2008 e, anche se l’epicentro è diverso (allora partì dagli Usa), potrebbe contagiare allo stesso modo, se non di più, tutta l’economia reale mondiale.
La Cina, infatti, è pur sempre la seconda economia del pianeta, prima per esportazione di manufatti e per importazione di materie prime, con una “massa commerciale critica” più che sufficiente a condizionare buona parte degli scambi internazionali e, in primo luogo, il mercato delle “commodities”. I guai cinesi, perciò, diventano inevitabilmente e rapidamente guai di tutto il mondo: hanno spinto come mai al ribasso i prezzi del petrolio e delle altre materie prime, hanno arrestato ed invertito la fin qui sostenuta corsa delle economie emergenti, stanno sconvolgendo le Borse mondiali, rischiano di accendere una pesantissima ipoteca sulla ripresa mondiale, lenta ovunque, modesta in Europa, assolutamente incerta in Italia. Inoltre e soprattutto, la svalutazione obiettivamente competitiva dello yuan ha già messo in movimento più che equivalenti ed altrettanto competitive svalutazioni prima nei Paesi Emergenti asiatici e subito dopo poi nell’intero sistema dei BRICS, fino a lambire nei giorni scorsi l’euro e, a simmetria inversa, il dollaro, inquietante premessa di una devastante guerra valutaria “tutti contro tutti”.