L’EDITORIALE
Economia mondiale: G-20, serve compromesso tra peggio per tutti e male minore per ognuno
di Stefano Mantegazza
L’OCSE ed il FMI non hanno dubbi: l’economia arranca praticamente dappertutto, il mondo dovrebbe crescere quest’anno e l’anno prossimo nei dintorni di uno striminzito 3%, gli Stati Uniti e l’Europa di circa la metà, i Paesi Emergenti hanno smesso di trainare la crescita e, stremati dal crollo dei prezzi del petrolio e delle materie prime, sono sostanzialmente in recessione, Giappone e buona parte dell’Asia sembrano incamminarsi sulla stessa strada.
A cominciare dalla Cina, che il prossimo 26 febbraio ospiterà a Shanghai il G-20, vale a dire i Paesi che rappresentano l’80% del PIL e del commercio mondiale e che, proprio per questo, devono vedersela almeno con la medesima quota dei guai economici del mondo.
Ancora una volta a cominciare da quelli che con la Cina hanno più di qualcosa a che vedere. Perché il rapido dimezzamento della crescita cinese, scesa rapidamente da una media annuale del 13/14% a meno del 7, ha tirato bruscamente il freno a mano della comunque stentata ripresa economica del pianeta.
Perché tutte le più importanti Borse ancora girano tra le lente salite e le vertiginose discese dell’otto volante sul quale le ha imbarcate l’estate scorsa il tracollo dei corsi azionari di Shanghai, di Hong Kong e di Shenzhen.
Perché l’alterno svalutarsi e rivalutarsi del renminbi, la moneta cinese, scombina in opposte direzioni i rapporti di cambio tra le principali monete e mette in eguale e contrario imbarazzo sia le politiche espansive della BCE, sia le graduali restrizioni monetarie della FED.
Soprattutto perché sul G-20 di Shanghai aleggia lo spettro della richiesta cinese di essere ufficialmente considerata, seppure contro ogni evidenza, “economia di mercato”.
Non per astratte ragioni di prestigio o di principio, bensì per dare tangibile respiro al mastodontico sistema delle imprese statali cinesi. Un sistema che perde colpi, malgrado il fiume di denaro generosamente fornito da banche altrettanto di Stato, accusa eccessi di capacità produttiva sempre più insostenibili, ha urgente e concreto bisogno di vendere all’estero quel che i cinesi non vogliono o non possono consumare.
Le imprese cinesi, come è fin troppo noto, da sempre esportano ampiamente in dumping fiscale, ambientale, sociale e sindacale.
Incontrando il solo limite della “griglia a maglie larghe” dei dazi che europei ed americani hanno finora potuto opporre a parte almeno delle esportazioni cinesi, senza incorrere nelle sanzioni del WTO proprio per l’esclusione della Cina dal club delle economie di mercato.
Ciò malgrado, le difese europee ed americane sono state progressivamente indebolite dalla “lunga marcia” cinese attraverso le grandi Istituzioni Economiche mondiali, approdata quindici anni or sono all’ammissione nel WTO, nel 2015 all’elevazione del renminbi a valuta di riserva del FMI ed ora in vista del traguardo decisivo del “certificato di economia di mercato”.
Un certificato che consentirebbe alla Cina di operare in dumping ovunque e comunque, senza più l’impaccio di dazi, tariffe e contingenti che attenuino l’ineguale e sostanzialmente sleale competitività dell’export cinese.
Eventualità che di sicuro preoccupa un po’ tutti, sia gli USA che difficilmente potrebbero continuare ad escludere la Cina ed i Paesi asiatici più integrati all’economia cinese dal Trattato di Libero Scambio tra gli Stati Uniti e l’area del Pacifico, sia l’UE che a buona ragione considera l’irresistibile concorrenza dell’acciaio cinese una campana a morto per gran parte delle acciaierie continentali, innanzitutto per la già tanto inguaiata ILVA italiana. E’ ovvio, perciò, che Europa ed America siano ben poco disposte ad ammettere che la Cina del Partito Unico, del credito e delle aziende per lo più di Stato, della Banca Centrale alle dirette dipendenze del Governo sia “economia veramente di mercato”.
Tuttavia, è da vedere se e fin quando riusciranno a “tener duro”, strette come sono in una micidiale contraddizione.
Perché, se è vero che il dumping cinese distrugge imprese e lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico, è anche vero che il repentino declino dell’economia e delle esportazioni della Cina spingerebbe lo sviluppo ed il commercio mondiali al di sotto del già asfittico 3% stimato dell’OCSE e dal FMI, pericolosamente nelle vicinanze della depressione planetaria.
Così, purtroppo, stanno e promettono di restare alquanto a lungo le cose del mondo, per questo c’è da sperare che Cina, Stati Uniti, Unione Europea, Paesi più e meno Emergenti riescano a sciogliere questa contraddizione e a costruire nel G-20 di Shanghai un compromesso di buon senso tra il peggio per tutti ed il male per ognuno minore.
Sempre che le contorsioni dell’economia e della geo-politica davvero consentano di distinguere con precisione il male dal peggio.