LAVORO
Politiche attive: servizi ma non per tutti
Non è considerato disoccupato chi guadagna meno di 8.000 euro
di Eleonora Tomba
La grande riforma delle politiche attive si è “dimenticata” dei disoccupati che percepiscono redditi da lavoro, benché sotto il limite di tassabilità (8.000 euro), lasciandoli privi di assistenza.
Il decreto legislativo n. 150/2015, di riordino dei servizi per l’impiego, che nelle intenzioni del Governo dovrebbe rilanciare i servizi per l’impiego anche attraverso la costituzione con funzione di coordinamento nazionale dell’Anpal (l’agenzia unica per il lavoro), ha modificato anche la disciplina dello stato di disoccupazione, presupposto indispensabile per l’accesso ai servizi. Per ottenere lo status, ora, è necessario effettuare l’iscrizione al portale nazionale delle politiche attive e sottoscrivere il patto personalizzato di servizio con il centro per l’impiego.
In caso di disoccupato che svolga attività di lavoro subordinato (di durata superiore a sei mesi) o autonomo, comunque con un reddito annuale inferiore a quello imponibile, il decreto prevede la perdita dello stato di disoccupazione. Nel caso in cui, però, si tratti di percettore di NASpI o DIS-COLL, il lavoratore mantiene il trattamento economico, perdendo soltanto il diritto all’assegno di ricollocazione.
Chi ha perso il lavoro, quindi, e non possiede i requisiti contributivi per l’accesso ai trattamenti di disoccupazione, magari perché lavora da poco tempo o in maniera troppo discontinua, non solo non avrà un’integrazione al reddito ma qualora trovasse un impiego da cui derivi un reddito, anche se inferiore a 8.000 euro all’anno, non potrà neppure beneficiare dei servizi per l’impiego.
Che cosa è successo? Non doveva essere questa la rivoluzionaria riforma dei servizi per l’occupazione che avrebbe realizzato un efficientamento del vecchio sistema? Innalzato l’occupazione? Consentito a tutti i disoccupati vere possibilità di riqualificazione professionale secondo le esigenze del mercato?
Questo disallineamento normativo ci dimostra, ancora una volta, che il Jobs Act e i suoi discendenti sono figli di una politica frettolosa, che manda avanti gli slogan trascurando il fatto che le riforme, per essere considerate tali nel loro significato più profondo, devono essere ragionate e fatte dando la giusta attenzione a ogni scelta e alle sue ripercussioni.