Gustavo Zagrebelsky
Mai più senza maestri
Il Mulino, Bologna 2019, pp.153
“Mai più maestri” scrivevano nel maggio 1968 gli studenti francesi sui muri della Sorbona: era il sogno/utopia di una società totalmente egualitaria e libera, che rifiutava ogni gerarchia e azzerava le differenze nella convinzione che nessuno fosse superiore all’altro e che, spesso, dietro a ogni forma di autorità (dalla famiglia alle istituzioni, dalla scuola al lavoro) ci fossero solo giochi di potere, interessi, competizione, guadagni.
“Mai più senza maestri” ci scrive invece oggi, in questo breve libretto, l’autore, già Presidente della Corte costituzionale, professore emerito di Diritto all’università di Torino, in un mondo dove regnano incontrastati “influencer”, “comunicatori” e “tutor”; personaggi popolari e benvoluti perché rassicurano e consolano, dicono e fanno quello che tutti dicono e fanno ma che non vogliono né possono essere “guide dello spirito capaci di risvegliare le coscienze”.
Ma cos’è veramente un “maestro” ? Per l’autore è colui che “come la guida alpina, stando più avanti e più in alto nella salita, trae a sé gli altri, li protegge, li aiuta…”; è colui da cui dipende l’ascesa, riconosciuto da tutti come autorevole; e, se insegnante, è un educatore, non solo un istruttore, un esperto, uno specialista di qualcosa; è colui, infine, che ha qualcosa da trasmettere non solo perché ne sa di più, ma perché è riconosciuto spirito più libero e creativo di altri e suscita voglia e volontà di imitazione.
Si tratta, riflette Zagrebelsky, di figure essenziali nelle società libere, talvolta scomode e anacronistiche ma, “senza di loro si è condannati al pensiero unico e all’omologazione”; senza di loro “chi susciterà l’inquietudine del dubbio”? Chi indicherà “l’altrimenti?” Chi “smuoverà le energie vitali e liberatorie verso il nuovo?”
Evidente è infatti la preoccupazione dell’A. sull’oggi: i maestri (capitolo 1) sembrano scomparsi, annichiliti, intimoriti, spesso irrisi nella loro funzione di educatori e/o di intellettuali; sembra poi messo in dubbio il bisogno di cultura (capitolo 2), sostituita dall’istruzione, ma “istruire non è educare”, non è “formare”; non si crede più nell’autorevolezza (capitolo 3), nell’importanza cioè di essere discepoli di qualcuno riconosciuto come maestro in qualcosa, e così più che maestri si tende ad avere burocrati della formazione; c’è infine (capitolo IV) un’emergenza, anzitutto educativa, si considera il maestro come “ridicolmente anacronistico”, di lui non si “sente il bisogno” e questo perché si vive “sotto la dittatura del presente”.
Viviamo in una democrazia omologante, sembra dirci l’A., che tende ad appiattire verso il basso e non a spingerci a puntare verso l’alto; è quindi dovere comune riproporre la centralità dei maestri, l’importanza degli spiriti critici, riportando la formazione alla sua funzione essenziale, quella di e-ducare e non solo. Una provocazione importante per un sindacato come il nostro che ambisce ad essere, anche, “comunità educante” per i suoi lavoratori e delegati.