GIORNO PER GIORNO
La crisi cinese, il lavoro e l’utopia della “fabbrica zero lavoro”
Come se non bastasse il crollo delle Borse, la frenata della crescita, la svalutazione della moneta, un debito dello Stato, delle amministrazioni locali e delle aziende di Stato pari al 200% del PIL, una nuova incognita si sta aggiungendo alla già tanto complicata equazione della crisi cinese: il lavoro.
Che ha smesso di essere la risorsa abbondante ed a buon mercato dell’impetuoso sviluppo del Dragone, il motore all’apparenza inarrestabile della competitività su ogni mercato dell’industria e delle produzioni cinesi.
Innanzitutto perché costa sempre di più: la retribuzione media cinese, che nel 2003 non superava i 14.000 yuan, in 10 anni più che triplicata, fino ad oltre 51.000.
Poi perché la produttività del lavoro, invece di crescere almeno di pari passo ai salari, è diminuita parecchio più che in proporzione, tanto da indurre un crescente numero di aziende a lasciare la Cina per cercare in Vietnam, in Indonesia, persino nella instabile Birmania, lavoratori più produttivi e meno cari.
Infine e non da ultimo perché il combinato disposto dell’alto costo e della bassa produttività del lavoro anche in Cina, come sempre e come ovunque, crea disoccupazione, in luoghi ed in ordini di grandezza fino a poco tempo fa impensabili.
Persino nel Guang Dong, la Provincia cinese di gran lunga più industrializzata, che conta migliaia e migliaia di aziende e che da sola produce circa il 25% del PIL del Paese.
Sempre più imprese della zona non hanno commesse sufficienti a mantenere i precedenti livelli di attività, accusano consistenti “esuberi” e, mancando in Cina un vero sistema di sostegno al reddito dei disoccupati, hanno inventato una sorta di “CIG fai da te”: i lavoratori restano a casa a mezza paga e vengono chiamati al lavoro se e quando l’azienda abbia le commesse necessarie a far girare gli impianti.
E nemmeno è finita qui.
Le autorità e le imprese largamente pubbliche locali hanno deciso che, se il problema è il costo e la produttività del lavoro, la soluzione è semplice: basta eliminare i lavoratori. A tal fine il Governo del Guang Dong ha concesso a circa 2000 aziende finanziamenti pubblici per oltre 152 miliardi di dollari, da investire in tecnologie ed attrezzature per l’automazione delle lavorazioni. Con l’inedita ed inquietante ambizione di creare la “fabbrica zero lavoro”, in cui i robot sostituiscano almeno il 90% dei dipendenti in precedenza utilizzati.
Un’ambizione da fantascienza, più che da politica industriale, la cui semplicità è tanto socialmente radicale, quanto economicamente sballata, per tantissime concrete ragioni.
Basta ricordarne una, la più ovvia.
Come potrebbe stare in piedi un sistema economico senza consumatori, dal momento che, dato e non concesso che le macchine possano produrre al posto degli uomini, di sicuro non consumeranno quel che producono.
Questa sola ragione è sufficiente a ritenere assolutamente probabile che della “fabbrica zero lavoro” non se ne farà nulla, né in Cina, né altrove, e che tecnologia ed automazione continueranno ad essere il complemento e non il surrogato dei lavoratori in carne ed ossa.
Tuttavia, l’apparente novità della fabbrica senza lavoratori, è in realtà la esasperata e logora riedizione in salsa cinese della per niente nuova idea che la retribuzione e le condizioni del lavoro siano le sole, quantomeno le prime “variabili”, da sacrificare sull’altare della produttività e della riduzione dei costi d’impresa.
Che dire? Se la crisi è globale, sarebbe saggio evitare almeno la globalizzazione delle pessime idee.