LAVORO
Jobs act, “tomba” della contrattazione
di Giampiero Sambucini
Nel secolo scorso la legge ha riformato e controriformato il lavoro più o meno ogni 20 anni. Poco meno di un ventennio, infatti, separa la Carta del Lavoro che nel 1927 ha dato forma giuridica all’ordinamento corporativo del lavoro dal Codice Civile del 1943, assai meno fascista e in gran parte tuttora vigente. Più di vent’anni dividono la di poco successiva Costituzione Repubblicana del 1948 dallo Statuto dei Lavoratori del 1970; anche il “pacchetto Treu” si è fatto attendere per tre decenni ancora.
Col nuovo secolo le riforme organiche del lavoro si sono inseguite e susseguite a ritmi sempre più serrati. Nel 2003 la legge Biagi; nei dieci anni successivi una serie di leggi e decreti, spesso di recepimento di direttive europee. Infine, nel 2012, la riforma Fornero e, dopo appena due anni, il “Jobs act” che sta rimettendo quasi tutto in discussione, spesso non in meglio.
Una simile accelerazione legislativa non è casuale, meno che mai politicamente neutra. Perché nel quasi mezzo secolo che corre dallo Statuto dei Lavoratori al “Jobs act” è facilmente riconoscibile un continuo processo di attenuazione delle tutele, individuali e collettive, dei lavoratori e di erosione degli spazi della contrattazione collettiva. Attorno alla quale si è progressivamente stretta una sorta di “gabbia normativa”, un reticolo di leggi e principi generali di diritto, sentenze costituzionali e di più e meno consolidata giurisprudenza di legittimità, regolamenti e persino circolari ministeriali, fino a spingerla sul binario, se non morto moribondo, della obbligata o pedissequa attuazione di rinvii legislativi.
Il “Jobs act” sembra voler chiudere il cerchio dell’assedio all’autonomia negoziale delle parti. La manomissione dell’articolo 18 infatti, è la punta di un iceberg la cui parte sommersa affonda nelle acque torbide in cui la politica si sostituisce al negoziato, per ridurre la legittimità o meno dei licenziamenti a una questione di soldi, per scardinare l’equilibrio contrattuale delle retribuzioni col salario minimo stabilito dal governo e stravolgere il mercato del lavoro con l’indiscriminata estensione dei “voucher”, per promettere ai lavoratori nuove protezioni sulla cui sostenibilità sociale e finanziaria ogni dubbio è lecito, per degradare le politiche per il lavoro da “attive” a burocratiche.
Preoccupa quel che nel “Jobs act” c’è ma più ancora quel che in esso manca: qualsiasi accenno non rituale alla bilateralità. Scopo ultimo di questa riforma è sottrarre, quanto più possibile alle parti sociali, il governo e la gestione dei loro comuni interessi, per ricondurre tutto al comando della legge. Ma, se tutto torna alla legge allora tutto viene affidato alla politica, al mutevole combinarsi e scombinarsi delle alchimie parlamentari, di governo e di partito, all’arco voltaico acceso dall’emarginazione dei corpi intermedi, tra sempre meno elettori e sempre troppi eletti, alle occasionali, talora estemporanee convenienze di breve orizzonte di cui, tra un’elezione e l’altra, vive la politica.
Da questo disordinato estendersi della politica sulla libera composizione degli interessi collettivi nasce e trae alimento il frenetico accavallarsi di riforme e controriforme del lavoro. Le rappresentanze del lavoro e dell’impresa devono reagire a questo esproprio politico della loro autonomia, alzando lo sguardo oltre gli immediati difetti del “Jobs act”, che sono tanti e devono essere corretti, per proporre e sostenere un progetto di relazioni sindacali e per la protezione del lavoro. Un progetto in grado di conciliare, sulla frontiera avanzata della bilateralità, le fisiologiche ragioni del conflitto sociale e del confronto negoziale e capace di armonizzare i particolari interessi bilaterali del lavoro e dell’impresa a quelli più generali del paese.