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I torti di Landini, l’autonomia della UIL

30 Marzo 2015
in L'EDITORIALE
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L’EDITORIALE
I torti di Landini, l’autonomia della UIL
di Stefano Mantegazza

Ha certamente torto Landini che vuole rifondare il sindacato sull’antagonismo “a prescindere”, sulle urla di piazza, attorno a una “coalizione sociale” che, illudendosi di essere la prima scintilla del terzo millennio, non si accorge di essere l’ultima fiammella del secolo scorso.

La coalizione di Landini, anchilosata dalle sue stesse parole d’ordine, perde la dignità di corpo intermedio, scade a corpo sociale estraneo, irrilevante rispetto a quanto è già cambiato, impotente a guidare il cambiamento ancora a venire.

Ha solo in parte ragione Annamaria Furlan, quando giustamente richiama le Confederazioni e le loro strutture alla pratica dell’autonomia e alla ridefinizione del proprio ruolo, ma quella riflessione sembra avere un profilo alquanto rassegnato e disegna, a mio avviso, un sindacato prigioniero, più che artefice del suo proprio ruolo.

Un sindacalismo che si appiattisca sulle passate glorie della concertazione e dello scambio politico rischia la nostalgia che scivola nel reducismo, rinuncia a governare quel che sta cambiando e ancora cambierà.

Ha ancora più torto il premier Renzi che pretende di scavalcare la mediazione sociale e di accendere tra sé stesso e il popolo-elettore un “arco voltaico” politico, allo stesso tempo instabile, perché basta un pò di populismo alla Grillo o alla Salvini per spostarne il fuoco in pessime direzioni, e debole, perché il “suo popolo” sempre più diserta le urne e diffida sempre più dei politici.

Renzi ha soprattutto torto quando, nel tentativo di semplificare quel che non ammette semplicismi, considera i corpi intermedi come una complicazione del governare e non come una complessità indispensabile alla qualità della democrazia.

Ciò detto, gli altrui torti certo non autorizzano il sindacato, corpo intermedio per eccellenza, a restare ostinatamente eguale a sé stesso, mentre tutto attorno a lui cambia.

Il cambiamento, per sua natura, espone a nuovi rischi e offre nuove opportunità; per affrontare gli uni e per cogliere le altre il sindacato ha bisogno, a premessa di ogni iniziativa, di nuova e più salda autonomia.

Oggi, quando la politica ondeggia sul confuso confine tra Seconda e Terza Repubblica e cerca di compensare le proprie debolezze debordando sulle autonome prerogative delle parti sociali, la nostra autonomia non può ridursi a mera petizione di principio e di sicuro non è un diritto naturale acquisito per sempre.

Dobbiamo costruirla giorno per giorno, lungo la strada maestra che separa l’antagonismo a tutto e tutti dalla soggezione alla politica e dalla compiacenza alle imprese.

Dall’antagonismo salvifico e fine a sé stesso siamo vaccinati dai tempi non sospetti in cui la UIL si è battuta per prima – e quasi da sola – per spostare il baricentro e la stessa ragion d’essere del sindacato dalla protesta alla proposta, dal chiuso delle fabbriche alla rappresentanza dei cittadini.

Più difficile distillare il vaccino utile a prevenire il “collateralismo di nuovo conio”, talora inquinato dalla commistione degli interessi del lavoro a quelli di una qualche parte politica, che si traveste spesso da “senso di responsabilità” e che, nei confronti di Governi e imprese, si accontenta dell’accordo per l’accordo, anche a prescindere dal merito.

L’autonomia della UIL è semplice, ma non per questo facile da praticare; discutiamo con i Governi, quale che ne sia il colore e negoziamo con le imprese sempre per costruire il miglior accordo possibile nelle condizione date, senza mai rinunciare a far valere le ragioni del lavoro e gli interessi dei lavoratori con le opportune forme di lotta, efficaci quanto necessario e all’occorrenza generali.

Questa semplice, e allo stesso tempo difficile autonomia, però, ha una efficacia maggiore quando CGIL, CISL e UIL la praticano unitariamente, essere autonomi da soli, come essere l’uno dall’altro “diversamente autonomo” lascia ognuno più isolato e meno forte.

Unità e autonomia quindi, costruite sul rispetto della pari dignità di ogni cultura sindacale, sul confronto nel merito e non sulle diatribe ideologiche sono il binomio vincente che protegge l’intero sindacato tanto dall’irrilevanza e dall’impotenza di chi grida molto e, rifiutando di cambiare sé stesso, non cambia nulla, quanto da chi, per assai malinteso senso di responsabilità, finisce per essere, più che interlocutore, consulente della politica, più che controparte, improbabile collaboratore esterno dell’impresa.

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