GIORNO PER GIORNO
Cina economia di mercato? Quel riconoscimento che spaventa tutti
L’11 dicembre 2011 la Cina è stata ammessa al TWO e, secondo l’art. 15 del relativo Protocollo di Adesione, trascorsi 5 anni, vale a dire il prossimo 11 dicembre, dovrebbe esserle riconosciuto automaticamente o quasi lo “status” di economia di mercato.
L’Europa non vede bene questa possibilità e i segnali contro tale riconoscimento si stanno moltiplicando. A partire dal voto di pochi giorni fa dell’Europarlamento che ha preso una posizione molto netta: con una risoluzione parlamentare contro il riconoscimento dello status speciale approvata da un ampio ventaglio di forze politiche (546 sì, 28 no e 77 astenuti) si chiede alla Commissione Europea di mantenere in piedi le difese anti-dumping e di “opporsi a qualsiasi concessione unilaterale dello status di economia di mercato”.
In effetti il riconoscimento della Cina come economia di mercato non sarebbe per nulla formale, ma ridurrebbe gli strumenti comunitari di difesa commerciale imponendo a tutti i Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio di rimuovere tutte le attuali limitazioni alle esportazioni cinesi. Proprio nel momento in cui Bruxelles mette a punto strumento più efficaci di difesa del commercio.
In pratica una “bomba” sul sistema internazionale degli scambi, la cui “onda d’urto” sarebbe particolarmente violenta su praticamente tutte le economie industrializzate. Perché le imprese cinesi, private o di Stato che siano, esportano a costi e prezzi largamente drogati da finanziamenti e sussidi pubblici, indifferenti alle condizioni ed incompatibili con le regole del libero mercato. Quindi in “dumping”, dal quale un po’ tutti si sono difesi e tuttora si difendono con dazi e tariffe, innanzitutto gli USA, che con la Cina commerciano ampiamente in perdita per oltre 230 miliardi di dollari l’anno, poi il Giappone, la cui economia si fonda ampiamente sulla protezione del mercato interno, infine e per nulla da ultima l’Europa, che importa dalla Cina oltre il 20% dei beni acquistati all’estero e che ha ottenuto dal TWO l’autorizzazione ad applicare alle esportazioni cinesi 85 diverse misure anti dumping.
Misure che, però, non durano in eterno, restano in vigore per 5 anni, trascorsi i quali non possono essere rinnovate automaticamente, per cui al momento ne sopravvivono soltanto 52, più della metà applicabili ai soli settori della chimica e dell’acciaio.
Deutsche Bank prevede che, ove queste pur non moltissime misure venissero meno d’un colpo, l’Europa perderebbe 2,5 punti di Pil e 3,5 milioni di posti di lavoro. Per l’Italia, seconda potenza manifatturiera d’Europa alle spalle della Germania, sarebbe un crack nel crack, con effetti devastanti dalla siderurgia al tessile alla ceramica. I dazi si applicano ad appena 1,3% dei prodotti in ingresso dalla Cina ma, secondo la Commissione Europea, tutelano il 40% della produzione italiana.
Questo l’ordine di grandezza economico e sociale delle conseguenze per l’Unione dell’eventuale riconoscimento alla Cina dello “status” di economia di mercato.
Problema per niente semplice, in quanto la Cina non rinuncerà facilmente alla possibilità di esportare sempre di più, una volta rimosso l’impaccio delle altrui misure anti dumping.
Perché le esportazioni, aumentate di ben l’11,5% nel solo mese di marzo, sono praticamente la sola voce positiva della malandata economia cinese, che da tempo va male e rischia di andare ancora peggio.
Ha smesso di crescere a due cifre e stenta anche a spuntare lo striminzito 6,5% previsto dal 13° Piano Quinquennale, per di più ritenuto da Standard & Poor’s “tendente da stabile a negativo”.
Le Borse di Shanghai e di Hong Kong non si sono riprese e chissà se mai si riprenderanno dallo “tsunami” dell’estate scorsa, mentre il sistema finanziario cinese è minato da una gigantesca “bolla” immobiliare, alla quale si è recentemente aggiunta una ancor più pericolosa “bolla” delle materie prime e delle “commodities”.
Il sistema produttivo della Cina scricchiola sotto il peso dell’ormai strutturale eccesso di capacità produttiva, delle “aziende zombie” tenute artificialmente in vita dai soldi dello Stato e dell’indebitamento pubblico e privato ormai oltre il 270% del Pil.
E’ ovvio, perciò, che la Cina conti sempre più, addirittura soltanto sull’aumento delle esportazioni per turare le molte falle della sua economia e della sua finanza.
È anche ovvio, però, che i suoi partner commerciali non intendano saldare il conto dei dissesti dell’economia cinese.
Gli Stati Uniti, il Giappone e con loro India e Messico hanno già annunciato che non intendono ammettere che la Cina sia ormai un’economia di mercato, mentre l’Unione Europea, come al solito, è divisa.
Italia, Spagna, Polonia, Regno Unito e Francia non vogliono riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato che, al contrario, Svezia, Olanda, Belgio, Danimarca ed Irlanda hanno già deciso di riconoscerle.
La Germania, unico Paese europeo a vantare un saldo attivo dell’interscambio con la Cina, ha relativamente meno bisogno di proteggere le sue attività manifatturiere danneggiate dal dumping cinese e, perciò, naviga a mezz’acqua.
Gli altri 17 Stati Membri per ora tacciono, alcuni perché scarsamente danneggiati dalle esportazioni cinesi, altri perché attratti dal basso prezzo delle importazioni dalla Cina, altri ancora perché, non sapendo che fare, aspettano di vedere “come andrà a finire”.
Ed andrà a finire che l’UE “incerta ed in disaccordo con se stessa” conterà poco nelle decisioni del TWO del prossimo dicembre, le opposte opinioni degli Stati Membri si elideranno a vicenda e la sorte di fondamentali settori dell’industria europea, dall’acciaio alla chimica a parecchio altro, dipenderà da quel che altri decideranno, nel loro interesse e non necessariamente anche in quello dell’Europa.
Eppure, da quelle decisioni dipende gran parte del futuro della manifattura europea e, per quanto più direttamente ci riguarda, italiana, che hanno bisogno tanto di proteggere i loro punti di PIL ed i loro posti di lavoro dal “dumping senza barriere” cinese, quanto di competere ad armi pari col resto del mondo.
E’ ora che l’Unione Europea per una volta sia davvero tale, che ponga al TWO il vero problema della leale concorrenza sui mercati internazionali, sfregiati non solo dalla Cina e dalle sue imprese di Stato, ma anche ed altrettanto dal dumping fiscale, ambientale e più ancora sociale praticato, nell’indifferenza del TWO, da altri e persino insospettabili Paesi.
Visto mai che, parlando con una sola voce, stavolta l’Europa riesca a farsi ascoltare.