JOBS ACT
Cassa integrazione, la riforma restringe il campo
Legge di stabilità dia risorse per sostegno al reddito
di Eleonora Tomba
Al via lo scorso 24 settembre la “nuova” cassa integrazione con l’entrata in vigore del decreto legislativo n.148/2015 (attuativo del Jobs Act). In base alle nuove regole, si restringe il campo di intervento degli ammortizzatori e le aziende pagano una contribuzione addizionale in base all’effettivo utilizzo.
Il tetto massimo di durata dei trattamenti di cassa integrazione è di 24 mesi in un quinquennio, non più fisso (prestabilito ogni cinque anni dal mese di agosto, l’ultimo 2010-2015), ma mobile, decorrente cioè a ritroso dal momento della presentazione di ogni nuova domanda. Ai fini della durata massima si calcolano sia i periodi di CIGO, che quelli di CIGS, nonché i contratti di solidarietà. Proprio questi ultimi sono oggetto di una importante novità: diventano, infatti, una delle causali che consentono il ricorso alla CIGS, entrando così a far parte della disciplina della cassa integrazione (prima erano in appositi decreti). Si computano, quindi, ai fini della durata massima complessiva degli ammortizzatori, con l’eccezione che, per i primi 24 mesi di durata si calcolano per la metà.
Qualche esempio:
12 mesi di CIGO + 12 mesi di CIGS (=24 mesi ai fini della durata massima)
24 mesi di CDS + 12 mesi di CIGO o CIGS (=24 mesi ai fini della durata massima)
12 mesi di CIGO o CIGS + 18 mesi di CDS (=24 mesi ai fini della durata massima)
36 mesi di CDS (=24 mesi ai fini della durata massima)
Per la cassa ordinaria, la novità principale è che da gennaio 2016 sarà la sede INPS territorialmente competente a provvedere ad erogare il trattamento, perché le commissioni provinciali sono abolite. Beneficiari, durata e funzionamento rimangono sostanzialmente gli stessi (52 settimane in un biennio mobile), ma si aggiunge un limite di fruizione pari, nel massimo, a 1/3 delle ore lavorabili nell’unità produttiva in un biennio mobile.
Novità importanti soprattutto per quanto riguarda la cassa straordinaria: dal 1 gennaio 2016 scompare la CIGS per cessazione di attività, mentre rimangono quelle per crisi e per ristrutturazione, attivabili per un massimo dell’80% delle ore lavorabili nell’unità produttiva.
Non è più prevista la possibilità di accesso in caso di procedure concorsuali, ma il Ministero del lavoro ha chiarito che, se sussistono i requisiti, le aziende possono comunque chiedere la CIGS per crisi o ristrutturazione (Circ. n. 24 del 05/10/2015)
Come detto, si aggiungono alle causali i contratti di solidarietà, che non possono prevedere una riduzione di orario superiore al 60% dell’orario medio dell’unità produttiva e al 70% dell’orario individuale. Ciò significa che non sarà più possibile fare periodi di cassa integrazione a zero ore.
Sulla base del principio per cui si paga in basa all’utilizzo dell’ammortizzatore, oltre alla contribuzione ordinaria come stabilità in precedenza, le aziende avranno un deterrente notevole: pagheranno il 9% della retribuzione globale per le richieste di cassa, ordinaria o straordinaria, fino a 52 settimane, il 12% tra 52 e 104 settimane e il 15% oltre le 104 settimane di trattamento.
Si prevede, infine, l’obbligo di iscrizione ai Fondi di solidarietà per le PMI che occupano tra 5 e 15 dipendenti: già previsti dalla Riforma Fornero ma praticamente mai attuati, i Fondi costituiscono ora uno strumento importante per garantire un’integrazione al reddito per quei lavoratori che altrimenti rimarrebbero scoperti (dal 2016 scompare anche la cassa in deroga). Saranno le parti sociali a stabilire contribuzione e prestazioni; in mancanza, le PMI confluiranno nel Fondo di integrazione salariale presso l’INPS. Come Uila, da sempre valorizziamo la bilateralità come unica via per sopperire alle lacune di un welfare pubblico che non riesce a tutelare adeguatamente i lavoratori in situazioni di difficoltà; dobbiamo quindi attivarci per giocare un ruolo primario in questa importante partita.
È, infine, normata nuovamente la solidarietà espansiva che incentiva gli incrementi occupazionali e tende a favorire il turn over, prevedendo la possibilità di ridurre del 50% il proprio orario di lavoro e accedere al prepensionamento per i lavoratori con 20 anni di contribuzione e ai quali manchino meno di 24 mesi al raggiungimento del requisito anagrafico, in cambio di assunzioni a tempo indeterminato per il restante 50% dell’orario.
Complessivamente si tratta di una riforma che limita molto la possibilità di ricorso agli ammortizzatori in costanza di rapporto di lavoro. In passato forse è capitato di abusare della funzione originaria di gestione temporanea delle situazioni di crisi, ma il futuro appare non proprio roseo. Dal 2016 scompare la cassa in deroga, dal 2017 la mobilità e il trattamento massimo di cassa integrazione sarà di 24 mesi compresi i contratti di solidarietà; i licenziamenti collettivi, in compenso, sono legittimati anche in violazione dei criteri di scelta, grazie al contratto a tutele crescenti. Gestire la fase di chiusura di un’azienda sarà senz’altro più complesso. Questa riduzione delle tutele in costanza di rapporto di lavoro avrebbe dovuto accompagnarsi all’introduzione di un assegno di disoccupazione universale e in grado realmente di sostenere i lavoratori che perdono il posto. La NASpI ci prova ma non è sufficiente, due anni con un decalage così penalizzante sono troppo pochi; ci auguriamo che la prossima legge di Stabilità intervenga, destinando risorse adeguate a chi vede compromessa la propria occupazione. Alla nascita del Jobs Act il presidente Renzi dichiarava che, a fronte di una maggiore flessibilità in uscita, le lavoratrici e i lavoratori avrebbero usufruito di un miglior sostegno al reddito. Il Governo ha realizzato il primo obiettivo ma si è “dimenticato” del secondo.