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Cop 21, il miglior risultato possibile…ma dal 2020
di Fabrizio De Pascale
Un coro quasi unanime di consensi ha accolto la conclusione della Conferenza Onu sul clima di Parigi, la cosiddetta “Cop 21”, dove 21 indica il numero di anni necessari a raggiungere un accordo che trovasse il consenso di tutti i paesi del mondo sul tema del cambiamento climatico. Nel coro anche parte del mondo ambientalista che ha salutato l’accordo di Parigi come un importante passo avanti, riconoscendo però “che c’è ancora molto da fare”.
Può sembrare strano, forse banale, ma il principale risultato della Conferenza di Parigi è che 195 paesi abbiano finalmente e unanimemente riconosciuto che il cambiamento climatico rappresenta una grave minaccia per l’umanità e si siano impegnati a far sì che l’incremento della temperatura globale del pianeta resti “ben al di sotto” dei 2 gradi centigradi, magari anche solo 1,5 gradi, da qui al 2030.
Torniamo un attimo indietro per capire meglio.
Nel lontano 1997 il Protocollo di Kyoto (entrato in vigore nel 2005) stabilì, per i paesi aderenti, l’obiettivo di ridurre le emissioni inquinanti del 5,2% tra il 2008 e il 2012. Ma da quell’accordo erano svincolati sia paesi emergenti come Cina e India, sia alcuni paesi industrializzati, come gli Stati Uniti che, dopo averlo sottoscritto con Clinton, ritirarono la loro adesione sotto la presidenza di Bush (padre). Così le emissioni di CO2, che nel 1990 ammontavano a 21 miliardi di tonnellate, sono cresciute a 28 mld t nel 2006 fino al picco di 36 mld nel 2013, anno dopo il quale la situazione si è però stabilizzata.
Per 21 anni nell’ambito delle Nazioni Unite si è cercato un accordo globale che vincolasse tutti gli stati a ridurre le proprie emissioni. Usa e Cina, da sole, sono responsabili del 45% delle emissioni mondiali e, fino a qualche settimana fa, hanno sempre rifiutato qualsiasi accordo internazionale che li vincolasse. La loro adesione all’accordo di Parigi rappresenta quindi, di per sé, un successo peraltro però prevedibile dopo che, un anno fa, Usa e Cina, a sorpresa, hanno firmato un accordo bilaterale che li impegna a ridurre le proprie emissioni inquinanti del 20%; e dopo che lo stesso presidente Usa Barak Obama, nell’agosto scorso, ha annunciato una vera e propria “svolta” nella politica ambientale degli Usa affermando che “i cambiamenti climatici sono una minaccia per il futuro del pianeta e per la sicurezza nazionale” e ancora che “siamo l’ultima generazione che possa fare qualcosa. Non esiste un piano B”.
Al “successo” di Parigi ha anche sicuramente contribuito l’enciclica “Laudato Sii”, con la quale papa Francesco, oltre a porre con forza la questione ambientale, ne ha messo in evidenza lo stretto legame con l’emergenza sociale, indicando come vittime dei cambiamenti climatici siano in primo luogo le popolazioni più povere della terra. E forse proprio pensando a Papa Francesco, i paesi ricchi si sono impegnati a Parigi a versare 100 miliardi di dollari l’anno a vantaggio dei paesi in via di sviluppo.
Insomma, pur senza nessun obbligo specifico, nessun limite di emissioni indicato, nessuna sanzione prevista per i paesi inadempienti, la conferenza di Parigi va considerata come il miglior risultato possibile, in quanto, per la prima volta, tutti i paesi firmatari riconoscono la necessità e l’urgenza di contrastare il riscaldamento globale. L’accordo, inoltre, indica strade e azioni che gli stati, tutti insieme e collaborando tra loro, dovranno seguire per ottenere questo risultato. Ma non ci sono solo gli stati.
“Ora tocca a noi” sostengono alcuni ambientalisti. Tocca alla società civile, alle imprese, alle associazioni, ai cittadini di attivarsi per attuare queste azioni. E tutti possono fare molto per convincere cittadini, imprese e stati ad agire concretamente e velocemente per ridurre le emissioni e fermare il riscaldamento globale.
Certo, resta il problema dei tempi: l’accordo di Parigi sarà aperto alla firma dal prossimo anno ed entrerà in vigore solo nel 2020… E nel frattempo?