LAVORO
Politiche attive, non è ancora #lavoltabuona
Mancano gli strumenti per il sistema di penalizzazioni
di Eleonora Tomba
Uno dei principi cardine della riforma delle politiche attive, già contenuto nel decreto che ha introdotto la NASpI, è quello della condizionalità delle prestazioni di sostegno al reddito alla partecipazione a percorsi di ricollocazione del lavoratore.
Il Jobs Act prevede che ogni disoccupato stipuli con il Centro per l’impiego (Cpi) un “patto di servizio personalizzato”, con il quale si impegna a seguire il percorso progettato per lui dal Cpi nel tentativo di aumentare le occasioni di reimpiego.
Per ogni mancata partecipazione alle convocazioni e alle iniziative fissate dal Cpi, il disoccupato dovrebbe subire una decurtazione progressiva dell’assegno di NASpI o DIS-COLL, fino alla revoca dell’assegno e, nei casi sanzionatori più gravi, contestuale perdita dello status.
Questo meccanismo penalizzante dovrebbe servire a spingere il disoccupato a partecipare con puntualità al suo percorso di riqualificazione e ricollocazione, inserendosi in un sistema di politica attiva che, nell’ottica del legislatore, dovrebbe essere più efficiente e rispondente alle esigenze del mercato del lavoro.
Fin qui tutto bene … se non fosse che mancano dei tasselli fondamentali perché tutto funzioni.
Non è stato, infatti, definito in modo inequivocabile qual è il centro per l’impiego competente alla convocazione del disoccupato per la stipula del patto di servizio personalizzato; mancano le modalità operative per la comunicazione all’Inps dei provvedimenti di gestione della condizionalità e non c’è una definizione precisa di “offerta di lavoro congrua”, il cui rifiuto ingiustificato comporta la decadenza dal trattamento.
Al di là dell’incertezza per gli addetti ai lavori, questi vuoti si ripercuotono sull’intero sistema di politiche attive finanziate proprio con le risorse ricavate dalle prestazioni di sostegno al reddito non erogate per il mancato rispetto della condizionalità: il 50% di questi ricavi è destinato, infatti, ad alimentare il Fondo per le politiche attive (da cui si prendono i soldi per l’assegno di ricollocazione) e il restante 50% va a Regioni e Province autonome per strumenti di incentivazione del personale dei Cpi.
L’assegno di ricollocazione è la dote individuale che sarà incassata dal Cpi, o dall’agenzia interinale, che provveda al reimpiego del lavoratore con un’offerta congrua (della quale manca la nozione esatta). Questo sarebbe l’incentivo al percorso di riqualificazione professionale che, se non correttamente seguito dal lavoratore (e qui mancano banche dati e modalità per comunicare gli inadempimenti), lo porterebbe a decadere dall’indennità di disoccupazione, che dovrebbe confluire nel Fondo per le politiche attive dal quale si attinge, appunto, per l’assegno: insomma un circolo virtuoso che non può innescarsi a causa dei vuoti normativi.
Doveva essere “#lavoltabuona” per le politiche attive del lavoro e invece, ancora una volta, siamo davanti ad una riforma monca, che non dà lo slancio per un vero cambiamento.