SINDACATO
Ieri e domani. Quale futuro trent’anni dopo il referendum?
Convegno al Cnel con Camusso, Furlan, Barbagallo, Benvenuto e Mantegazza
“Il sindacato ieri e domani. A trenta anni dal referendum sulla scala mobile” è il tema del convegno che si è svolto a Roma, presso il Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il 10 giugno scorso, organizzato da Mondoperaio Koinè, Fdv, Fondazione Bruno Buozzi e Fondazione Giulio Pastore. L’incontro, aperto dalla relazione introduttiva di Raffaele Morese e presieduto da Luigi Covatta, è stato concluso dagli interventi dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo. Sono intervenuti anche Marco Bentivogli, Giorgio Benvenuto, Giuseppe De Rita, Maria Grazia gabrielli, Ivan Lo Bello, Bruno Manghi, Stefano Mantegazza, Giacinto Militello, Tommaso Nannicini.
Riportiamo una breve sintesi dei fatti storici che hanno caratterizzato l’accordo di San Valentino e, di seguito, l’intervento del segretario generale Uila-Uil Stefano Mantegazza al convegno.
La Storia
A fine 1983 l’inflazione superava il 13%, alimentata anche dalla spirale prezzi/salari/prezzi avvitata attorno all’indicizzazione “a punto unico” delle retribuzioni, per cui Cgil, Cisl, Uil, in sede di verifica degli esiti “dell’Accordo Scotti” del gennaio precedente, avviarono con la Confindustria e col Governo del tempo un vero e proprio negoziato triangolare di merito per ricondurne la dinamica a non oltre il 10%.
Il confronto – assolutamente unitario, pur se non privo di dissensi all’interno della Federazione Unitaria – si concentrò soprattutto sulla proposta di Ezio Tarantelli, poi e per questo assassinato dalle Brigate Rosse, per la “predeterminazione” dei futuri scatti della scala mobile, in coerenza all’obiettivo di rallentare di quanto programmato la crescita dell’inflazione, finché, il 14 febbraio 1984, la Uil, la Cisl, la componente socialista della Cgil e la Confindustria firmarono l’Accordo di San Valentino che, appunto, predeterminava e rinviava l’erogazione dei successivi quattro scatti di contingenza, mentre la maggioranza comunista della Cgil – per esplicito divieto del PCI, addirittura formalizzato dalla Direzione Nazionale del partito – rifiutò di sottoscrivere quell’Accordo.
La Legge 219 di attuazione di quel medesimo accordo fu approvata il 6 giugno 1984, malgrado il fortissimo ostruzionismo parlamentare del PCI, il quale PCI già all’indomani promosse contro quella legge un referendum abrogativo che, nonostante vari tentativi di evitarlo con più e meno pasticciati compromessi politico-sindacali, venne celebrato il 9 e 10 giugno 1985, ottenne un “quorum” di oltre il 77% e venne respinto da più del 55% dei votanti.
A consuntivo degli andamenti economici del 1984 ed in sede di verifica degli esiti dell’Accordo di San valentino si accertò che l’inflazione era scesa all’8% in ragione d’anno, per cui tre dei quattro punti di scala mobile “congelati” non scattarono e l’effettivo “taglio” delle scala mobile si ridusse ad un punto scarso.
Il confronto fu gestito dalla Federazione Unitaria, all’epoca ancora funzionante, la cui delegazione era guidata da Giorgio Benvenuto per la UIL, da Pierre Carniti per la Cisl e da Luciano Lama per la Cgil, mentre quella della Confindustria era guidata dal Presidente del tempo, Vittorio Merloni.
Gianni De Michelis, all’epoca Ministro del Lavoro, condusse l’intero confronto con la Federazione Unitaria e con la Confindustria, per lo più “a delegazioni separate”, mentre il Presidente del Consiglio Bettino Craxi intervenne nella trattativa praticamente soltanto il 14 febbraio, al momento della “firma separata” dell’Accordo.
Enrico Berlinguer, Segretario Politico del PCI, impose alla maggioranza comunista della CGIL di non firmare l’Accordo di San Valentino, nonostante l’esplicita riluttanza di Luciano Lama, e fu il più determinato promotore del referendum per l’abrogazione della legge che vi aveva dato attuazione, celebrato quasi un anno esatto dopo la sua scomparsa, avvenuta l’11 giugno 1984.
La Direzione Nazionale del PCI, all’indomani dell’approvazione della legge di attuazione dell’Accordo, decise di sottoporla a referendum abrogativo, ad un duplice, esplicito e fondamentale scopo: da un canto riaffermare il “diritto di veto” del PCI, all’occorrenza per interposta componente comunista della CGIL, sulle decisioni politicamente rilevanti della Federazione Unitaria – diritto esercitato con successo pochi anni prima, quando il “veto” del PCI impedì l’effettiva costituzione del Fondo dello 0,50%, per quanto approvata a larga maggioranza dal Direttivo della federazione Unitaria – dall’altro dimostrare che nessun Governo dal quale il PCI fosse escluso poteva concludere col sindacato accordi politicamente rilevanti, meno che mai realizzare “scambi politici” di sorta.
L’intervento di Mantegazza
Gli avvenimenti di trent’anni orsono si prestano oggi a qualche analogia e soprattutto impegnano il Sindacato ad una assunzione di responsabilità altrettanto impegnativa.
Mi pare infatti che la politica, allora di opposizione del PCI ed oggi di Governo, tenda a ricadere nell’errore di voler imporre le proprie convenienze all’autonomia delle rappresentanze sociali, utilizzando l’autorità delle Istituzioni e la forza della legge.
Il Pci di trent’anni fa ha utilizzato l’istituto costituzionale del referendum al fine “costituzionalmente improprio” di impedire alla maggior parte delle rappresentanze sociali di convenire col Governo del tempo quanto autonomamente ritenevano di comune interesse dei lavoratori e delle imprese. L’attuale governo ha imposto al Parlamento, impropriamente alternando la clava del voto di fiducia e la minaccia del “tutti a casa”, una riforma del lavoro che non tiene conto delle proposte di chi rappresenta i lavoratori e che, pur se ipocritamente intitolata alle “tutele crescenti”, in realtà riduce sostanzialmente alcune tra le più essenziali protezioni dei lavoratori.
Non solo. L’attuale presidente del consiglio minaccia di “entrare a gamba tesa” sulla libera contrattazione tra le parti con l’introduzione di un “salario minimo di legge”, largamente incompatibile con l’art. 36 della Costituzione, e sembra nutrire la tentazione di “ridurre ad uno” il pluralismo sindacale garantito anch’esso dalla Costituzione.
Le parti sociali di allora hanno fatto molto per correggere il funzionamento e porre le premesse per il successivo superamento della scala mobile, una decisione impegnativa, coraggiosa e, almeno sul versante sindacale, a forte rischio di impopolarità, così come il loro coraggio ed il loro impegno sono stati sicuramente decisivi per respingere il referendum abrogativo promosso dal PCI.
Le parti sociali hanno fatto molto anche in anni più recenti con gli Accordi Interconfederali, in avanzato stato di attuazione, che hanno convenuto le sedi, le modalità e le procedure per la misurazione della rappresentanza dei Sindacati Nazionali, per l’accertamento della rispettiva legittimazione alla contrattazione di categoria, per la gestione unitaria delle trattative contrattuali e per la validazione dei loro esiti, per rendere più flessibile la struttura e più certa l’efficacia degli accordi collettivi di ogni livello.
Ma le parti sociali possono e devono fare ancora molto. Il presidente della Confindustria ha invitato e sfidato le Confederazioni a discutere, ad ormai quattro anni dall’Accordo Interconfederale di giugno 2011, di cosa occorra modificare, negli equilibri e nelle competenze dell’attuale sistema della contrattazione collettiva. Cgil, Cisl e Uil unitariamente devono accogliere quell’invito e raccogliere quella sfida, non solo per rendere il rinnovo dei contratti “fattore ancor più propulsivo” dell’aumento dell’occupazione davvero stabile e del miglioramento della produttività delle imprese, ma anche e soprattutto per dimostrare che la politica fallisce e semina dissensi e conflitti quando pretende di riformare “d’autorità” (si tratti della scuola, delle pensioni o di quant’altro) quel che può e deve essere riformato nel confronto e col consenso delle rappresentanze degli interessi in quelle riforme coinvolti.
L’accordo di San Valentino ha “giocato d’anticipo” sulla fino ad allora inarrestabile crescita dei prezzi. Il riscontro dei fatti ha dimostrato che la predeterminazione della scala mobile ha migliorato e non diminuito il valore reale dei salari, così come l’esito del referendum ha dato ragione a coloro che hanno accettato la responsabilità e corso il rischio di sottoscrivere quell’accordo ed ha dimostrato che il consenso si raccoglie risolvendo i problemi, non cercando di impedire ad altri di risolverli.
Oggi le parti sociali devono “giocare d’anticipo” su una ripresa appena accennata, misurabile in frazioni di punto, esposta a forti rischi interni ed esterni, ancora insufficiente a ridurre l’altissimo livello della disoccupazione. Noi dobbiamo rinnovare i contratti collettivi scaduti, ma soprattutto dobbiamo proporre al sistema delle imprese un nuovo patto che crei una convergenza tra gli interessi del capitale e del lavoro.
Dobbiamo costruire soluzioni che impegnino le aziende a tornare ad investire in innovazione, ricerca e lavoro qualificato.
Dobbiamo pretendere che i lavoratori siano meglio pagati e valorizzati, offrendo in cambio la disponibilità a negoziare maggiori flessibilità.
Dobbiamo, insieme, sindacato e imprese proporci come protagonisti di un welfare contrattuale che attraverso la bilateralità garantisce maggiori tutele sociali.
Dobbiamo, insieme, costringere la politica e la burocrazia a combattere gli sprechi, eliminare le rendite, abbassare le tasse e realizzare la più importante delle riforme: far tornare a crescere, dopo più di due decenni di riduzione, la quota di valore aggiunto distribuito al lavoro sotto forma di salari più alti e maggiore occupazione.
Questo deve essere l’obiettivo dei prossimi anni per il sindacato. Per dare più valore a tutti i lavori ed un contratto ad ogni lavoratore, ad ogni azienda, ad ogni territorio.
Per dare alla crescita del Paese le solide fondamenta di un più avanzato equilibrio tra flessibilità, produttività, remunerazione, organizzazione e protezione del lavoro.